Visionario e dotato di un'immaginazione fuori dal comune, Syd Mead è noto per aver disegnato veicoli e ambientazioni per alcuni tra i più celebri film di fantascienza. Star Trek, Tron, Blade Runner… Bastino questi nomi per capire la levatura di un grande artista dell' illustrazione che ha dato il suo contributo anche al mondo dell'automobile.
Nato a St. Paul in Minnesota il 18 luglio del 1933, Syd Mead termina gli studi all’ Art Center School di Los Angeles nel 1959. Questo stesso prestigioso istituto, divenuto poi “Art Center College School of Pasadena”, lo vedrà tornare in veste di insegnante. Agli albori della “Jet Era”, tra la Guerra Fredda e le suggestioni della corsa alla Spazio, ottiene il suo primo incarico a Detroit nell' Advanced Styling Studio della Ford, ovvero il reparto dedicato alle concept car. Il giovane illustratore è sempre proiettato al futuro, forse troppo per la Ford, e così il suo impiego durerà solo due anni. Il contributo di Syd Mead però lascia il segno: opera sua la showcar Ford Gyron del 1961 e lo studio della fanaleria della Ford Falcon Futura (1964). Se l’industria guardava all'avvenire, il giovane Syd pensava già a reinventarlo; se le superpotenze pensavano di conquistare lo Spazio, lui ne immaginava già la decadenza… Per farla breve, era già oltre, lui. Ed è stato così fino all’ ultimo dei suoi giorni, lo scorso 30 dicembre 2019.L'avventura californiana. Dopo la parentesi presso l’Ovale blu, inizia a collaborare da “freelance” con altre importanti aziende come Philips Electronics e United States Steel. Nel 1970 crea il suo studio di progettazione, Syd Mead Inc., mentre dal 1975 si trasferisce nuovamente e definitivamente in California. Qui trova la sua dimensione, passando alla ribalta nel settore cinematografico: definisce le ambientazioni e i veicoli dei film di fantascienza, delineando spesso i tratti distopici delle società del futuro. La firma e la creatività di Syd Mead compaiono accanto alle più importanti case di produzione, nomi di fama globale come Walt Disney Picture, Warner Bros., Paramount, Lucas Film, Dreamworks, National Geographic e Discovery Channel.
Creatività a piene mani. Il suo portfolio di lavori è vastissimo e tratta temi disparati che spaziano dall’industrial design alla grafica, all’architettura, senza tralasciare trasporti e videogames. Stati Uniti e Giappone sono quindi i due Paesi d'elezione per i suoi progetti, ma non mancano collaborazioni nel resto del mondo: Arabia Saudita, Oman, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Brunei, Australia, Sudafrica, Svezia, Danimarca, Belgio, Germania e Italia… Syd Mead collabora infatti con le principali realtà del campo informatico e tecnologico, da Microsoft ad Apple, oltre a Sony, Panasonic, così come quelle dell’intrattenimento: SEGA, Rockstar Inc., Lego System.
Carriera stratosfercia. Nel 2017 Syd Mead è stato insignito anche del Lifetime Achievement Award, il più importante riconoscimento per la sua carriera, un premio meritatissimo per un uomo che ha dedicato la sua vita al design e alla progettazione a 360°. Nel settore “transportation”, viene contattato dalle più grandi aziende automobilistiche, infatti oltre alla citata Ford (con la quale collabora nuovamente nel corso degli anni ’90), ci sono anche General Motors, Toyota, Honda, Hyundai, Kia e Lamborghini. La sua auto preferita? La Imperial LeBaron, auto che ha guidato dal 1972 e della quale curò le illustrazioni per la campagna pubblicitaria. Il vulcanico Mead nel 1984 partecipa persino all’allestimento interno degli aerei dei regnanti di Oman (Boeing 747 SP), Arabia Saudita (Boeing 747 SUD) e Brunei (bOEING 727 400). Questi, a sua detta, sono stati i suoi più grandi successi lavorativi. Come se non bastasse, realizza anche diverse presentazioni per la Lockheed Aircraft.
Il futuro secondo Syd. Alzi la mano chi non ha mai giocato con una macchina Hotwheels… Nessuno. Ecco, Syd Mead ha collaborato anche con la Mattel nel 2001, realizzando poi una collezione speciale dedicata ai mezzi del futuro nel 2004.
Poliedrico, visionario, ironico. Se lui ci ha lasciato, le sue illustrazioni vivranno per sempre: i monitor delle giungle cibernetiche e le prospettive estremizzate raccontano le storie cupe delle società future, in contrapposizione ai veicoli imponenti e luccicanti. Mead immagina corpi statuari, extraterrestri e sovrannaturali, che tra drappeggi e cromature esprimono la bellezza senza tempo di quel futuro in cui credeva. Un "futuro" che ha ispirato e che continua a ispirare tantissimi creativi in tutto il mondo.
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Il 21 luglio ’19 Omega ha celebrato 50 anni dello sbarco sulla luna con uno Speedmaster Moonwatch in platino. Ecco la versione in dotato della riedizione del movimento indossato da Aldrin e Armstrong.
Ai primi di gennaio 2019 Omega ha annunciato il ripristino della produzione dello storico calibro 321, il movimento cronografico “con ruota a colonne” utilizzato sullo Speedmaster sceso sulla luna. Questo iconico cronografo è stato introdotto sul mercato nel ’57 e, a partire dai primi Anni 60, indossato dai piloti della Nasa nelle missioni spaziali. Queste sono culminate il 21 luglio 1969 quando Neil Armstrong e Buzz Aldrin sono scesi per la prima volta sul suolo del nostro satellite. Avevano al polso un Omega Speedmaster, che da allora è diventato il “Moonwatch". Celebrativo. L’anno scorso, nel giorno del cinquantenario, Omega ha lanciato una sfarzosa versione celebrativa in platino, equipaggiata con il calibro 321, una riedizione del modello della missione Apollo 11. Il movimento è stato ricreato a partire dallo stesso calibro dell’esemplare utilizzato da Gene Cernan durante la missione Apollo 17 del ’72 (l’ultima che ha portato esseri umani sulla luna). Dopo la preziosa edizione celebrativa in oro e platino, Omega annuncia lo Speedmaster Moonwatch 321 in versione con cassa in acciaio.
Spaziale. Questo modello, denominato “Ed White”, si ispira al famoso esemplare della referenza ST 105.003 del 1965, indossato da Edward White durante la missione Gemini 4, quella della prima passeggiata spaziale (all’epoca non era ancora “certificato” per i viaggi nello spazio). La cassa ha un diametro di 39,7 mm e si caratterizza per anse particolarmente dritte. La carrure presenta corona a estrazione per ricarica del movimento e rimessa dell’ora mentre la lunetta, in ceramica nera e con la classica scala tachimetrica, è equipaggiata con numeri bianchi smaltati. Il quadrante nero opaco (con vetro in zaffiro) presenta indici a bastone con un rivestimento in superluminova beige che crea un affascinante effetto vintage. Sono visualizzate ore, minuti e secondi cronografici centrali (con classica lancetta a freccia sulla punta). Sui piccoli contatori lo Speedmaster 321 “Ed White“ in acciaio riporta le informazioni cronografiche: contaminuti alle 3, conta ore alle 6 (secondi continui alle 9).
Edizione non limitata. Gli appassionati di questo modello noteranno che manca l’indicazione “Professional” aggiunta a partire dal 1964. Al suo interno è equipaggiato con il calibro 321, meccanico a carica manuale, 28.800 alternanze l’ora, 55 ore di riserva di carica e ruota a colonne. Ogni movimento viene assemblato da un singolo tecnico; forse è un po’ meno preciso del movimento attuale ma è certamente carico di fascino. L’Omega Speedmaster 321 acciaio “Ed White” è corredato da bracciale in acciaio. Prezzo: 13.400€. (edizione non limitata)
Modena, 16 dicembre 2019. Maserati celebra i 40 anni del connubio tra la Quattroporte e la Presidenza della Repubblica, dalla Maserati Quattroporte III del 1979 all' ultima generazione, in servizio dal 2 giugno.
Era il 14 dicembre 1979, quando al Quirinale, alla presenza del Presidente della Repubblica Sandro Pertini veniva presentata la nuova "Maserati Quattroporte III", nuova generazione dell’ammiraglia modenese. Due gli esemplari, una 4.2 con cambio manuale e 4.9 una automatica. Alla cerimonia, svoltasi a Roma, erano presenti il Ministro dell’Industria e del Commercio On. Antonio Bisaglia e l’Amministratore Delegato della Casa del Tridente, Alejandro De Tomaso.Imponente. La Maserati Quattroporte III, reinterpretava in veste più formale l’idea di una grande berlina di lusso ad elevate prestazioni. Presentata in veste praticamente definitiva al Salone dell' Automobile di Torino del 1976, entrerà in produzione solo 3 anni dopo. Lo stile, affidato a Giorgetto Giugiaro, richiamava alcuni stilemi proposti sulle concept car Maserati Medici I e II. La nuova ammiraglia esprimeva un'idea di solidità e imponenza, nonostante le dimensioni fossero minori rispetto al passato: la linea seguiva il trend degli Anni ’70, con una carrozzeria tutta spigoli caratterizzata dalla presenza di numerose linee parallele. Sul frontale la grande calandra cromata di forma rettangolare ospitava il Tridente, la fanaleria sdoppiata di forma squadrata (presa in prestito dalle Fiat 127) richiamava la prima serie di Quattroporte. Identitaria, infine, la fiancata con l’ampio montante posteriore inclinato che inglobava anche il logo Maserati.
Alti e bassi. L’allestimento interno era composto da plastiche bicolori abbinate ad inserti in legno. La selleria era disponibile in tessuto, Alcantara o pelle. La dotazione di serie comprendeva l'impianto di climatizzazione a controllo manuale con diffusori anche per il vano posteriore, era di serie anche un impianto audio con speaker integrati nel mobiletto posteriore con presa di corrente da 12V e l' ingresso per le cuffie. Gli ampi fascioni dei paraurti, furono oggetto di critiche: essendo in gomma non verniciata stridevano con l’immagine di un' auto di lusso. Questi erano necessari gli standard di omologazione in vigore negli USA, uno dei mercati d’ elezione del modello. Inoltre sulle auto con specifiche USA il climatizzatore era lo stesso della Plymouth Horizon, utilitaria tutt'altro che nobile. Nel 1984, il sistema di climatizzazione venne aggiornato, utilizzando quello della Maserati Biturbo.
Roba da ricchi. La Maserati Quattroporte III adottava solo motorizzazioni V8, nelle varianti 4.2 e 4.9 l (provenienti dalla coupè Maserati Kyalami). Entrambi i motori prevedevano una disposizione a V di 90° con distribuzione a 2 valvole per cilindro e garantivano un temperamento da granturismo a fronte di costi di esercizio molto impegnativi: la Maserati Quattroporte III superava di gran lunga il limite dei 2 litri di cilindrata entro i quali non si pagava l'IVA al 38%, mentre il consumo medio non superava mai i 6 km/l... Si stima che in Italia non ne siano state vendute più di 120. La prima motorizzazione era un 4.136 cm³ V8 da 255 cavalli con cambio manuale a 5 rapporti ZF e raggiungeva i 215 km/h
di velocità massima. La seconda aveva una cilindrata di 4.930 cm³ V8 e 280 cavalli, per una velocità di punta pari a 220 km/h. In questo caso la trasmissione poteva essere manuale a 5 rapporti o automatica 3 rapporti (Borg Warner).
Tecnica. Il pianale della Maserati Quattroporte III era di nuova concezione, adottava sospensioni a ruote indipendenti con schema a bracci multipli all'avantreno e al retrotreno, sullo schema della Jaguar XJ6, concettualmente simile.
La Quattroporte III poggiava su pneumatici 225/70 VR15 ed aveva un impianto frenante composto da quattro dischi autoventilati. Un'importante novità fu l'introduzione del differenziale a slittamento limitato Sensitork, disponibile dal 1984 su tutti gli esemplari.
Voglio il meglio. Nel 1986 la Maserati Quattroporte III fu oggetto di un leggero restyling e denominata “Quattroporte Royale”, il nome Royale infatti sottolineava la vocazione al lusso sfrenato. All' esterno in pochi notavano i nuovi i cerchi in lega cromati (ispirati a quelli della Quattroporte II), gli indicatori di direzione ridisegnati e delle a nuove modanature cromate. A beneficiare dell' aggiornamento, infatti, furono soprattutto gli interni, resi sontuosi dai rivestimenti in morbida pelle Pieno Fiore che rivestono i sedili regolabili elettricamente, mentre plancia e pannelli si arricchiscono di nuovi inserti in radica di noce . Di serie veniva offerto il radio telefono veicolare, alloggiato nel vano portaoggetti tra
i sedili anteriori, nel retro trovava posto anche il frigobar. Il climatizzatore era bizona a controllo elettronico.
Al centro della plancia l'orologio analogico Maserati con sfondo beige. Altra peculiarità della Royale erano i tavolini ribaltabili a scomparsa nelle porte posteriori.
Esecuzione artigianale. La Maserati Quattroporte Royale era dotata del potente motore V8 di 4.9l da 300 cv (20 in più rispetto al precedente) abbinato al solo cambio automatico Borg Warner a 3 rapporti, anche le sospensioni vennero rese più morbide per garantire il massimo comfort durante la marcia. La velocità di punta era di 230 km/h e per far fronte alla potenza e alla velocità crescenti vennero adottati dei freni più grandi. La commercializzazione della vettura iniziò nel 1979 e la produzione proseguì fino al 1990 per un totale di appena 2.145 esemplari realizzati artigianalmente, di questi, solo 51 esemplari della Maserati Quattroporte Royale. La Maserati Quattroporte III veniva offerta nelle sole tinte metallizzate:Argento,Blu Cielo (azzurro), Blu Sera (blu scuro), Marrone Colorado (marrone noce) e Oro Longchamp. Ulteriori colorazioni venivano offerte a richiesta per la clientela più esigente e facoltosa. I rivestimenti interni erano disponibili nelle colorazioni Naturale (marroncino chiaro) e dal 1985 vennero offerti anche il colore "Ivorio", Panna, e Bianco, quest'ultimo solo per il Medio Oriente.
Calliope. Nel 1982 la Segreteria Generale della Presidenza delle Repubblica commissionò a Maserati una Maserati Quattroporte III, blindata, secondo le specifiche dettate dal Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini.
Nel 1983 la Casa modenese consegnò al Presidente Pertini, la Maserati Quattroporte III in colore Blu Sera.
La configurazione "presidenziale" prevedeva rivestimenti in velluto marrone e pannelli porta in pelle bordeaux. Targata "Roma 90044D", l'auto presidenziale entrò in servizio il 27 febbraio 1983 e, come consuetudine degli addetti al garage del Quirinale, le venne dato un soprannome, in questo caso "Calliope" (in greco "dalla bella voce"), omaggio alla voce del suo potente 8 cilindri.
Esemplare unico. La più celebre peculiarità dell'esemplare presidenziale era l’ampio posacenere con relativo porta pipa al centro delle sedute posteriori: l'intero progetto ruotava attorno a questo dettaglio e per esaudire questa speciale richiesta del Presidente Pertini, Maserati dovette modificare il divano posteriore. All’interno era presente anche un mobile bar, un impianto telefonico e l'interfono per parlare con l’esterno della vettura senza aprire i finestrini.
La blindatura era eseguita con lamiera al manganese ad alta resistenza. I vetri antiproiettile erano in policarbonato e spessi 31 mm. Il tetto era apribile elettricamente sulla zona posteriore, per permettere al Presidente di viaggiare in piedi e salutare la folla; un’apposita maniglia era stata installata sullo schienale del sedile anteriore destro per rendere la posizione più sicura e confortevole.
Non tutti sanno che... Il Capo di Stato utilizzò la Maserati Quattroporte III in ogni occasione pubblica, anche per la storica visita alla Ferrari a Maranello, il 29 maggio 1983. Secondo il cerimoniale, una volta che l’auto fosse giunta all’interno dello stabilimento, il padrone di casa avrebbe dovuto avvicinarsi alla vettura presidenziale per dare il benvenuto all'ospite del Quirinale. Invece, Enzo Ferrari rimase immobile ad una decina di metri dall’auto...
Nell' imbarazzo generale, l’anziano Presidente Pertini, come sempre, stemperò l'atmosfera: scese dalla Quattroporte e
si incamminò verso il patron della Ferrari. "Il Drake", Ferrari, noto per il suo carattere burbero, ebbe persino da ridire sulla scelta del modello e non si mosse per via della storica rivalità tra il Cavallino Rampante ed il Tridente. Per ironia della sorte, oggi entrambi i marchi sono sotto l'egida FCA , con la Maserati Granturismo spinta da un motore di derivazione Ferrari...
Celebrità. Negli anni ’80, anche altri personaggi famosi scelsero la Quattroporte III e fu protagonista anche di numerose comparsate sullo schermo , si pensi ad esempio a "Miami Vice". Celebri le immagini del cantante lirico modenese Luciano Pavarotti, ritratto a bordo della sua Quattroporte davanti al Teatro alla Scala di Milano.
Allunga il passo. La Maserati Quattroporte III "Limousine" fu prodotta a partire dal 1986 dalla Autocostruzioni di Salvatore Diomante a Nichelino (To), dopo la prima mondiale al Salone dell'automobile di Torino. La versione Limousine era destinata a chi non si accontentava della Royale, aveva il passo allungato di 65cm, per una lunghezza complessiva di 5,56 m. Il telaio di base venne rivisto anche nella geometria delle sospensioni per adattarsi alla notevole mole dell'autovettura. L'esemplare esposto al Salone era verniciato in bianco e adottava accessori inediti come il sedile del passeggero ruotabile fino a 180° in modo da facilitare l'accesso e l’immancabile mini-bar inclusivo di una TV per i passeggeri posteriori. All'appello anche il climatizzatore automatico bizona, impianto audio potenziato, vetri posteriori oscurati e una console con presa di corrente.
Ammiraglia d'Italia. La Maserati Quattroporte è tutt'oggi la vettura ufficiale della Presidenza della Repubblica: lo scorso 2 giugno 2019, in occasione della Festa della Repubblica, il Presidente Sergio Mattarella ha utilizzato una Maserati Quattroporte (giunta alla VI generazione). La vettura è in colore “Blu Istituzionale”, una tinta realizzata in esclusiva per il Quirinale dalla Casa del Tridente, all'interno finiture in legno laccato nero in abbinamento alla pelle Pieno Fiore. Particolare attenzione è stata dedicata alla insonorizzazione dell’abitacolo, per garantire un eccellente comfort a bordo.
Portabandiera. La parte posteriore della console riporta il fregio d’onore della Repubblica Italiana. La Quattroporte realizzata per la Presidenza della Repubblica, è stata opportunamente modificata e dotata di una blindatura che rispetta i più elevati standard sicurezza per le vetture destinate all’ impiego istituzionale. Il propulsore è il noto V8 biturbo da 530 CV con una coppia massima di 650 Nm. Prosegue così la storica tradizione che vede il marchio Maserati nelle vesti di fornitore ufficiale del Quirinale, un privilegio, quello di accompagnare la Presidenza della Repubblica Italiana nelle celebrazioni più solenni, riservato a pochissimi modelli di prestigio che rendano onore all'industria automobilistica italiana e alla più Alta carica dello Stato.
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Il 15 gennaio al Museo Ferrari di Maranello sarà inaugurata l’esposizione “Ferrari at 24 Heures du Mans”, 70 anni di vittorie del Cavallino Rampante sul circuito della Sarthe.
Dopo aver visto al cinema “Le Mans 66 – La grande sfida”, lo spettatore non particolarmente impallinato di corse si sarà convinto che la Ferrari non abbia combinato granché nella gara di endurance per eccellenza. Sappiamo che non è così, ma tanto per ricordarlo una volta di più il Museo Ferrari di Maranello sta per inaugurare la mostra “Ferrari at 24 Heures du Mans”. Dal 15 gennaio, gli spazi espositivi di via Dino Ferrari ospiteranno alcuni tra i modelli che hanno contribuito a scrivere pagine memorabili della storia della gara di durata francese, come la 166 MM Barchetta Touring, la vettura che con Lord Selsdon e Luigi Chinetti si impose nel 1949 o la 488 GTE che si è aggiudicata l’ultima edizione con Alessandro Pier Guidi, James Calado e Daniel Serra. La mostra è un’occasione imperdibile di ammirare l’una accanto all’altra quelle auto eccezionali, nonché un omaggio alle imprese di vetture, ingegneri e piloti che hanno conquistato, nel corso dei decenni, 36 vittorie, di cui 27 di classe e nove assolute. Costituisce anche un’occasione unica per poter ammirare da vicino il trofeo della 24 Ore.Rosse vincenti. L’ultima Ferrari bagnata di Champagne a Le Mans è stata appunto la numero 51 di AF Corse. Per la 488 GTE si è trattato del primo successo in classe GTE-Pro nella classica francese, come del resto per i tre piloti coinvolti. Per la Casa di Maranello quella del 2019 è stata la vittoria di classe numero 27, che si va a sommare alle nove assolute, la prima giunta settant’anni fa grazie a Luigi Chinetti con la 166 MM Barchetta Touring privata.
L'impresa di Chinetti. La 24 Ore di Le Mans si disputa dal 1923. Si è fermata solo nel 1936 e dal 1940 al 1948 per la guerra. La prima Ferrari a imporsi fu nell’edizione 1949 (il 20° anniversario della fondazione della Scuderia) quando Luigi Chinetti, il pilota milanese e poi naturalizzato americano che avrebbe fondato il NART (North American Racing Team), coinvolse nel tentativo il nobiluomo britannico Peter Mitchell-Thomson, Lord Selsdon, che finanziò l’acquisto di due Ferrari 166 MM. La sigla significava Mille Miglia: l’anno prima Luigi Chinetti aveva già vinto la 12 Ore di Parigi e pensò fosse il momento giusto per dare l’assalto a Le Mans su un’auto nata vincente. In gara Chinetti guidò praticamente per tutta la corsa, lasciando il volante al Lord solo per un’oretta e dopo avere acquisto un vantaggio enorme sui rivali.
Una vittoria dopo l'altra. Nel 1954 arrivò il primo successo in veste ufficiale, quando la Scuderia Ferrari iscrisse tre 375 Plus. A trionfare furono due piloti che con le Rosse corsero e vinsero anche in Formula 1: l’argentino José Froilan Gozalez e il francese Maurice Trintignant. Tre anni dopo arrivò un primato di categoria, ma la Ferrari risalì sul gradino più alto del podio nel 1958, quando lo statunitense Phil Hill e il belga Olivier Gendebien riuscirono a battere la concorrenza delle Aston Martin, al volante di una Ferrari 250 TR58. Dopo un altro alloro di categoria nel 1959, iniziarono gli anni d’oro della Ferrari a Le Mans con sei successi di fila e una dominazione mai vista prima sul circuito della Sarthe. Nel 1960 Gendebien, con il connazionale pilota/giornalista Paul Frere ottenne il successo con una 250 TR59/60 ufficiale. L’anno seguente il belga fece tris di nuovo insieme a Hill sulla 250 TRI/61, con il podio interamente occupato dalla Ferrari: al secondo posto arrivarono gli altri piloti ufficiali, Willy Mairesse, belga, e Mike Parkes, britannico. Terza giunse, invece, la Ferrari 250 GT SWB privata del belga Pierre Noblet e del francese Jean Guichet, che vinse anche la propria categoria.
La fine del regno. Nel 1962 arrivò un altro podio interamente Ferrari, con la gara che venne vinta ancora una volta da Hill e Gendebien con la 330 TRI/LM Spyder. Anche nel 1963 la Ferrari fu la dominatrice assoluta della competizione, con la vittoria assoluta, due successi di categoria e i primi sei posti della classifica. Il trionfo fu completamente italiano, con Ludovico Scarfiotti, Lorenzo Bandini e la 250 P. L’anno dopo si imposero Vaccarella e Guichet con la 275 P. Mentre su Le Mans si allungavano le ombre del lungo dominio della Ford GT40, il 1965 fece in tempo a portare l’ultimo rocambolesco successo assoluto. Fu grazie alla Ferrari meno favorita, schierata dal North American Racing Team con al voltante l’austriaco Jochen Rindt e lo statunitense Masten Gregory, “the Kansas City Flash”, un pilota ricco di famiglia, miope e che schiacciava sul pedale in totale spregio al principio dell’impenetrabilità dei corpi.
La mostra “Ferrari at 24 Heures du Mans” rimarrà aperta fino al 19 aprile 2020 e affianca le altre già presenti al Museo, “Hypercars - L’evoluzione dell’unicità” e “90 anni – Scuderia Ferrari, la storia completa”. Può essere visitata tutti i giorni dalle 9.30 alle 18 (19 dal 1° aprile).
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É un evento ASI quello che si svolgerà dal 13 al 15 marzo prossimi, Eva al Volante, gara di regolarità per auto storiche aperto solo a donne appassionate e volenterose di cimentarsi in questa disciplina.
Il programma di quest’anno porterà gli equipaggi alla scoperta della Toscana, percorrendo le strade più belle tra Firenze, Siena e Greve in Chianti. Eva al Volante non è solo competizione, ovviamente, ma un giusto compromesso tra il piacere della guida, la cultura e il benessere, tanto che sono previste visite guidate nei centri storici di queste meravigliose città d’arte e persino al Museo Gucci. Tra un trasferimento e l’altro però le signore dovranno anche impegnarsi nell’affrontare delle serie di prove cronometrate.Il perchè dell’iniziativa. Eva al volante è una manifestazione curiosa ma celebrativa del legame da sempre strettissimo che unisce donne e motori. Sono vissute infatti negli ultimi anni dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento le prime pionere che si cimentarono alla guida di automobili, diventando quasi figure leggendarie. Come la contessa veneziana Elsa Albrizzi, grande appassionata di fotografia e delle nuove tecnologie di fine ‘800, che non rimase indifferente alla nascita dell’automobile, verso la quale nutrì fin da subito una profonda passione.
Anticipatrice dei tempi. Prima donna patentata d’Italia, Elsa Albrizzi organizzò raduni automobilistici nella sua residenza estiva di Este ma soprattutto, nel 1899, fondò il Club Automobilisti Veneti diventandone la prima presidente e ideando una “Prova di resistenza per veicoli automobili, province venete”, una sorta di competizione ante litteram su un percorso di ben 172 km tra Padova, Vicenza, Thiene, Bassano e Treviso.
La prima collezionista. Altra grande appassionata di sangue blu la Regina Margherita di Savoia, che possedeva addirittura una vera e propria collezione di automobili, una per ogni occasione e ciascuna con un proprio nome: “Palombella” per i servizi ufficiali a Roma, “Stornello” per la dama di servizio, “Allodola” per i reali principi, “Alcione” per le brevi passeggiate, “Passero” per la real corte. La sua marca preferita era l’Itala, ma il “garage reale” comprendeva anche Fiat, Rapid e Talbot.
La prima donna in Formula 1. Diversa passione ha animato invece la contessa Maria Teresa De Filippis, prima donna a correre in un Gran Premio di Formula 1. Nel 1958 si schierò sulla griglia di partenza del Gran Premio del Belgio e tagliò il traguardo in decima posizione assoluta al volante di una Maserati 250F. Amanti della velocità anche le due note pilotesse italiane Ada Pace e Lella Lombardi, e ancora Prisca Taruffi e Giovanna Amati.
Eva al volante 2020 - 1RuoteclassicheEva al volante 2020 - 2RuoteclassicheEva al volante 2020 - 3RuoteclassicheEva al volante 2020 - 4RuoteclassicheEva al volante 2020 - 5RuoteclassicheEva al volante 2020 - 6RuoteclassicheEva al volante 2020 - 7RuoteclassicheEva al volante 2020 - 8Ruoteclassiche
La stagione 2020 delle aste di auto classiche si apre il 16 gennaio in Arizona sotto il segno del Cavallino Rampante. Anzi, del prancing horse, come direbbero da quelle parti.
Nella sfilata dei 147 lotti battuti da RM Sotheby’s spiccano le Ferrari degli anni Cinquanta e Sessanta, le Granturismo più ambite dalla facoltosa clientela americana.
Speciale. La più preziosa di tutte le vetture proposte dalla RM Sotheby's per l'evento in Arizona, è la 250 GT Cabriolet prima serie carrozzata da Pinin Farina, la quintessenza delle vetture scoperte di Maranello. Numero di telaio 0913 GT, questa rossa 250 GT è la numero 25 di appena 40 esemplari costruiti nel 1958. Viene messa all’asta dopo vent’anni in cui l’unico proprietario l’ha guidata per raduni ed eventi prestigiosi negli States, fra i quali il 15° Concorso Italiano e il Colorado Grand Tour. Questa prima serie ritrae con apparente semplicità ed efficacia la felicità dell’incontro di pochi anni prima fra due genii dell’auto, Enzo Ferrari e Battista “Pinin” Farina. Le linee morbide e ininterrotte portano lo sguardo dai fanali carenati e i piccoli pararti verticali all’accenno di pinne posteriori, in un singolo e fluido movimento di matita rossa. Considerata da molti come una delle Ferrari più eleganti mai carrozzate da Pinin Farina, questa 250 GT Cabriolet (il cui prezzo stimato di vendita va dai 6 ai 7 milioni di dollari!) racconta magnificamente gli anni in cui Ferrari si aprì al ricchissimo mercato americano. Questo grazie alle sollecitazioni di Luigi Chinetti, il pilota di endurance che su una Ferrari da lui acquistata aveva vinto la 24 Ore di Le Mans nel 1949.
L'Ambasciatore del Cavallino. Attraverso la NART (sigla di North American Racing Team, la scuderia creata a New York proprio nel 1958), Chinetti diede la spinta decisiva al Drake perché costruisse auto sportive da vendere all’alta borghesia americana introducendo l’uso dell’automobile di prestigio come passatempo sportivo. Una clientela che divenne il miglior ambasciatore e mezzo di promozione delle auto del Cavallino. Senza Chinetti, probabilmente la storia industriale della Ferrari avrebbe avuto una dimensione diversa, visto che attraverso la NART il 40 per cento circa dell’intera produzione di Maranello prese la rotta verso gli Stati Uniti. Proprio a uno dei primi finanziatori di Luigi Chinetti fu consegnata la seconda Ferrari di grande pregio che sarà battuta in Arizona. Si tratta della Ferrari 250 Europa GT Coupe del 1954, sempre carrozzata da Pinin Farina. RM Sotheby's ci presenta questo esemplare, numero 11 di appena 43 costruiti, con motore originale e restaurata di recente nella tinta originale azzurra con tetto grigio e interni in cuoio beige. Stima: da 1.500.000 a 1.700.000 dollari
Certificate. Un altro Cavallino di razza nell’asta RM Sotheby's è una delle 99 Ferrari 330 GTS Pininfarina del 1967, anche questa restaurata di recente nel colore grigio ferro originale. È certificata da Ferrari Classiche e ha vinto il Cavallino Platinum Award nel 2017, 2018 e 2019. Per la 330 GTS la stima sale fra 1.800.000 e 2.200.000 dollari. Stesse aspettative per la 275 GTB/6C Scaglietti del 1965. Questa coupé purosangue proviene dalla scuderia di John “Skip” Barber, ex pilota di Formula 1 e fondatore della scuola di guida sportiva più famosa degli Stati Uniti. Fa parte dei 248 esemplari con il muso corto e dei 59 dotati in optional di sei carburatori. Motore 6 cilindri e telaio sono originali e, come il resto della vettura, sono stati sottoposti a un accurato restauro. Anche questa 275 GTB/6C si è aggiudicata un Platinum Award al Cavallino Classic del 2013.
Le altre. A corollario di questi lotti pregiatissimi, la sfida senza esclusione di colpi al… RM Sotheby’s corral in Arizona proporrà una Ferrari 365 GTB/4 Daytona del 1971, una Testarossa dell’87 e un trio di 70° Anniversario con poche miglia sullo strumento: una F12 Berlinetta, l’unica in livrea “Grand Tourer”; una GTC4 Lusso “The Icon” e una 488 Spider in livrea “Magnum P.I”. Per tutte queste, le stime variano dai 350.000 ai 450.000 dollari.
foto Robin di Adams, Darin Schnabel e Andrew Miterko.
Asta RM Sotheby's in Arizona - 1RuoteclassicheAsta RM Sotheby's in Arizona - 2RuoteclassicheAsta RM Sotheby's in Arizona - 3RuoteclassicheAsta RM Sotheby's in Arizona - 4RuoteclassicheAsta RM Sotheby's in Arizona - 5RuoteclassicheAsta RM Sotheby's in Arizona - 6RuoteclassicheAsta RM Sotheby's in Arizona - 7RuoteclassicheAsta RM Sotheby's in Arizona - 8RuoteclassicheAsta RM Sotheby's in Arizona - 9Ruoteclassiche
Sottratta nottetempo a Brescia da una banda specializzata, risarcita dall’assicurazione quindi ritrovata dalla Questura, la vettura Sport Cabriolet è stata ricomprata dalla famiglia olandese a cui era stata portata via.
La notizia del suo furto la notte del 13 maggio 2018, qualche ora prima la partenza della 1000 Miglia, aveva fatto in poco tempo il giro del mondo dei collezionisti di auto storiche. Poi, liquidata dall’assicurazione, la bella Alfa Romeo 6C 2500 Sport Cabriolet carrozzata dalla Touring nel 1942 aveva guadagnato nuovamente l’onore della cronaca per il successo nelle indagini della Questura di Brescia che l’aveva ritrovata indagando su una banda di nomadi specializzata nel furto di auto di lusso. L’Alfa Romeo, ricordiamo, era stata lasciata dal proprietario, Jeroen Branderhorst, in un carrello parcheggiato al quartiere Noce, a Brescia.
Sottratta nottetempo a Brescia da una banda specializzata, risarcita dall’assicurazione quindi ritrovata dalla Questura, la vettura Sport Cabriolet è stata ricomprata dalla famiglia olandese a cui era stata portata via.
La notizia del suo furto la notte del 13 maggio 2018, qualche ora prima la partenza della 1000 Miglia, aveva fatto in poco il giro del mondo dei collezionisti di auto storiche. Poi, liquidata dall’assicurazione, la bella Alfa Romeo 6C 2500 Sport Cabriolet carrozzata dalla Touring nel 1942 aveva guadagnato nuovamente l’onore della cronaca per il successo nelle indagini della Questura di Brescia che l’aveva ritrovata indagando su una banda di nomadi specializzata nel furto di auto di lusso. L’Alfa Romeo, ricordiamo, era stata lasciata dal proprietario, Jeroen Branderhorst, in un carrello parcheggiato al quartiere Noce, a Brescia.Le indagini. Il ritrovamento dell'Alfa Romeo 6C 2500 Sport Cabriolet Touring è stato reso possibile da sei mesi di indagini della Squadra Mobile di Brescia: a novembre del 2018 la famiglia di nomadi che aveva rubato l’auto era stata individuata. Tre persone, padre e madre cinquantenni e il figlio 19enne avevano staccato il carrello dall’auto degli olandesi e lo avevano agganciato al loro furgone, quindi si erano dileguati nella Bassa bresciana. Una serie di telecamere li aveva ripresi mentre entravano in autostrada al casello di Brescia Centro, percorrevano la A21, quindi uscivano a Pontevico. Una volta individuati i ladri la polizia ha eseguito intercettazioni e analisi dei tabulati telefonici alla ricerca di contatti, in Italia o all’estero, con reti specializzate in pezzi unici o auto rare. Arrestati i tre hanno poi confessato: l’auto era nascosta in una cascina ormai abbandonata e nessuno l’aveva più toccata dalla notte del furto. Si trovava, appunto, nella campagna di Pontevico ancora nel carrello chiuso.
Riscattata. In queste settimane si è scritta tuttavia una nuova pagina nella storia di questa macchina dato che la famiglia Branderhorst, imprenditori olandesi collezionisti di auto storiche e da sempre frequentatori della 1000 Miglia, hanno deciso di riscattare la vettura dall’assicurazione che ne era diventata proprietaria, dopo averne liquidato il valore assicurato. I Branderhorst hanno così restituito alla compagnia la somma loro versata come indennizzo, più un’ulteriore cifra dato che nel corso dell’anno trascorso l'Alfa Romeo 6C 2500 Sport Cabriolet Touring ha accresciuto il proprio valore.
Il ritorno. La bella Alfa Romeo 6C 2500 Sport Cabriolet Touring torna dunque a casa e alla famiglia olandese sono arrivate più proposte da organizzatori di gare di tutto il mondo per inaugurare la stagione del suo ritorno a casa. Ma per dimostrare che il furto non ha inciso sull’affetto per la Freccia Rossa e Brescia sarà la 1000 Miglia 2020 la vetrina da cui l’Alfa dei Branderhorst ritornerà a disputare le competizioni. Proprietari e organizzatori sarebbero già al lavoro per sottolineare il ritorno della 6C 2500. La giusta chiusura di una bella storia.
Testo di R. Manieri
Ritrovata l'Alfa Romeo 6C Sport Cabriolet Touring - 1RuoteclassicheRitrovata l'Alfa Romeo 6C Sport Cabriolet Touring - 2Ruoteclassiche
Utrecht, Paesi Bassi, 12 dicembre 2019. La a De Tomaso P72 sarà realizzata in una serie limitata di 72 esemplari ed è già ordinabile presso la concessionaria olandese “Louwman Exclusive”.
Svelata lo sorso aprile 2019 a Goodwood, durante il Festival of Speed, la De Tomaso P72 ha fatto parlare di sé sin da subito, le sue curve mozzafiato, (sulla falsariga della superba Ferrari P4) onorano la DeTomaso-Shelby P70 del 1965.
La P72 non rimarrà un esercizio di stile fine a sè stesso: la De Tomaso ha annunciato il suo rilancio con la produzione di 72 esemplari in serie limitata, già ordinabili.Controcorrente. Ryan Berris, Direttore Generale e Responsabile del Marketing De Tomaso, chiarisce subito il significato storico della P72: l’intento della De Tomaso non è produrre l'auto più veloce o più potente del Mondo per raccogliere notorietà mediatica. La De Tomaso P72 ripercorre le origini del Marchio. Chi acquista la P72 si riconosce in quella schiera di appassionati della storia dell’automobilismo, gentlemen drivers e connoisseurs amanti della guida come esperienza più che della performance assoluta. In quest’ottica la P72 sarà offerta esclusivamente con il cambio manuale a 6 marce sviluppato da De Tomaso.
Cuore americano. Lo spirito originale De Tomaso rivive sulla P72, alimentata oggi come allora da un V8 di origine americana. I propulsori di derivazione Ford hanno fatto parte del DNA De Tomaso fin dall'inizio. Nello specifico troviamo un 5 litri accreditato di 700 cv e 825 Nm di coppia disponibile con carburante da 91 ottani. Il motore, che raggiunge i 7.500 giri/min con una curva di potenza lineare, esalta la purezza dell’esperienza di guida. Il propulsore è frutto della collaborazione tecnica tra De Tomaso Automobili e la nota società di ingegneria Roush Performance. Questa azienda americana, specializzata nell'elaborazione meccanica, è stata coinvolta nello sviluppo di motori ad alte prestazioni come il V8 della Ford GT del 2005 e il V6 dell’ultima Ford GT (dal 2017). Il V8 della De Tomaso P72 utilizza quindi una base Ford collaudata, che ha superato un complesso processo di validazione, a garanzia della fornitura dei componenti post-vendita e una base di omologazione OEM. Tutto ciò nel rispetto delle normative vigenti, relative alle emissioni e alla durata per l’utilizzo nei mercati statunitensi ed europei.
Insieme dal principio. Il rapporto tra Alejandro De Tomaso e Ford iniziò nel 1963, per lo sviluppo della prima automobile stradale, la Vallelunga (1963). Si trattava di una GT a motore centrale basata sulla Ford Cortina. Dopo la Vallelunga, De Tomaso collaborò con Carroll Shelby sulla P70, dotata anche questa di un motore Ford V8. Segue poi la De Tomaso Mangusta (1966), ma sarà la Pantera (1970) a decretare il successo del Marchio. Anche le lussuose Deauville (1971-1985) e la Longchamp (1972-1986), così come la Guarà (1993-2004) sono spinte da motori di derivazione Ford. Non è un caso, infatti, che nel 1970 la Casa dell’Ovale Blu acquisì una partecipazione azionaria di maggioranza in De Tomaso e la conservò per diversi anni.
Il canto del V8. Per la De Tomaso P72 è stata messa a punto anche una sonorità unica e distintiva, per renderla immediatamente riconoscibile tra le altre supercar V8. Il suono rimanda direttamente alle American Muscle degli anni '60 in questo caso rielaborate con delle tonalità persino setose e ricercate. Una musica che emoziona il pilota ed ammalia chi la incontra per strada. A questo scopo, i tecnici hanno ridotto al minimo qualsiasi “interferenza” proveniente dalla sovralimentazione per garantire il feeling di un’aspirazione naturale. Lo si percepisce sin dalla prima messa in moto, accompagnata da una musica d’altri tempi: l’accensione di una De Tomaso P72 riporta indietro nel tempo, esattamente come se si fosse nel 1966, sulla griglia di partenza della 24 ore di Le Mans.
Tra retrò e modernismo. Il telaio della De Tomaso P72 è in fibra di carbonio e viene realizzato a mano mentre la carrozzeria è di ispirazione classica ed evoca forme sensuali. L'interno, dichiaratamente rètro, riprende il layout dei prototipi anni '60 e '70: qui ritroviamo i tipici strumenti circolari ed analogici; le finiture si caratterizzano per gli inserti in rame lucidato ed i rivestimenti in pelle cucita a diamante. Il cambio con griglia e leveraggi a vista è uno dei protagonisti assoluti dell’abitacolo. De Tomaso definisce la sua P72, "una moderna macchina del tempo".
L’ esclusiva. La Louwman Exclusive, è la concessionaria leader nei Paesi Bassi per la vendita di auto di lusso, ed è il brand di punta del Gruppo Louwman. Nello showroom troviamo marchi di prestigio: dalle produzioni fuoriserie come Brute (elaborazioni su base Jeep), Minotto (barchetta artigianale dalle linee vintage) e TVR ai grandi nomi come Maserati, McLaren, Morgan, Lamborghini, Bentley, Rolls-Royce oltre alla De Tomaso, appunto. Considerando che l’unica concessionaria si trova a Utrecht, Arjen van Beek, Direttore Generale della rinomata realtà olandese, assicura che i clienti potranno usufruire di un servizio di presa e consegna con i cosidetti ‘flying doctors”, tecnici altamente specializzati che intervengono in loco in caso di necessità ed assistenza. Il prezzo di vendita provvisorio della P72 De Tomaso è stato fissato a 750.000 euro (imposte escluse). I primi esemplari, dei soli 72 previsti, saranno disponibili in Europa nell’ ultimo trimestre del 2020 ma sono già ordinabili presso la Louwman Exclusive.
Le abbiamo viste in molti film anni '70, le Personal Luxury Cars erano coupè di fascia medio-alta con finiture e dotazioni di prestigio. Rappresentavano il “lusso raggiungibile” e facevano sognare la "Middle Class" americana.
In principio fu la Ford Thunderbird, risposta dell'Ovale blu alla Chevrolet Corvette lanciata nel 1953. Era il 1955 e la nuova coupè sfoggiava finiture eleganti e una linea più sbarazzina rispetto alle grandi coupè di lusso come la Cadillac Eldorado. Il modello per il 1958 della Ford Thunderbird inaugura ufficialmente il segmento delle Personal Luxury Cars.4 è meglio di 2. La formula di una 2 porte con almeno 4 posti dalla linea elegante si rivela vincente: in un America profondamente “puritana” le vetture a due posti come la Corvette e la precedente Thunderbird del ’55 erano considerate troppo edonistiche e persino peccaminose…
Medio-alta. Le Cadillac Eldorado e le Lincoln Continental, pur avendo due porte e un abitacolo “intimo”, rappresentavano il top di gamma dei rispettivi marchi (di lusso) e perciò erano destinati ad una clientela molto più ristretta. Il successo delle Personal Luxury Cars stava proprio nell’ incarnare un “lusso raggiungibile”, per questo il core business era composto da auto di fascia media con finiture e dotazioni di prestigio.
Coktail Party. Il blogger Bryan Davis associa le Personal Luxury Cars ai cocktails, definendole “Il Martini dell’Automobile”: Se il Vermouth può essere l’accenno alla sportività che rende leggermente dorato il bicchiere, il Gin rappresenta il caldo abbraccio del lusso. Infine l’oliva, quel tocco in più, che indica come “sibaritico”, è dato dal tetto Landau. Elementi semplici che danno vita a un grande ensamble.
Le coupè GM. Nel 1964, Bill Mitchell, deus ex machina dello stile General Motors, ordina al suo staff di progettare una coupè che fosse l’incrocio tra una Rolls-Royce e una Ferrari: nasce la Buick Riviera. Nel 1966 è la volta della Oldsmobile Toronado, modello che fa tastare a GM il segmento delle grandi coupè a trazione anteriore, anticipando di 10 anni la stessa concorrenza (interna al gruppo GM) rappresentata dalle grosse Cadillac Eldorado e Coupè De Ville, le Personal Luxury Cars di alta gamma.
Comfort 1 - 0 Sport. Nel giro di un decennio la clientela era maturata, chi fino agli anni ’60 comprava Muscle Cars come Oldsmobile 442 e Pontiac GTO, ora si preoccupava più del comfort che della sportività. La stessa Ford Cougar, che in origine era concepita come una Mustang imbellettata (ma dalla vocazione sportiva), cambia identità tramutandosi in una lussuosa coupè con il caratteristico finestrino sul montante posteriore definito “Opera Window". Anche la Thunderbird si orienta con decisione verso la parte più comodosa e glamour del mercato delle Personal Luxury Cars: il modello 1967 è disponibile in versione “Landau” con delle caratteristiche suicide doors.
Basta poco. Sempre in casa General Motors, il 1970 vede debuttare la Chevrolet Monte Carlo, modello che segna i volumi di vendita più alti del segmento: si trattava in pratica di una Chevelle con un padiglione dal look più “formale” venduta a prezzi molto abbordabili.
La più significativa. Le Personal Luxury Cars raggiungono la loro massima popolarità a metà anni ’70, nonostante il crollo delle prestazioni dovuto alla Crisi petrolifera del 1973 e al costo delle polizze assicurative, aumentano il comfort e le amenità di bordo. In testa alle classifiche troviamo sempre modelli GM: la Oldsmobile Cutlass Supreme, autentica bestseller insieme alla Chevrolet Monte Carlo. Il modello più significativo tra le Personal Luxury Cars del periodo (o Personal Luxury Coupè, che dir si voglia) è probabilmente la Chrysler Cordoba, presentata nel 1975.
Montalbàn, sono! La Chrysler Cordoba è stata un modello molto importante per il marchio, essendo l’unico grande successo commerciale durante gli anni ’70. La Cordoba venne lanciata tramite una fortunata campagna pubblicitaria con l’attore messicano Ricardo Montalbàn, la cui inflessione esaltava i rimandi esotici del modello (vagamente ispirato alle Jaguar XJ dell’epoca), disponibile con rivestimenti in “Corinthian Leather”. La fantomatica dicitura “Corinzia”, rivelerà molti anni dopo Montalbàn, durante un’intervista da David Letterman, non aveva nessun significato se non quello di proporre un prodotto commerciale con un nome evocativo ed importante.
Solo immagine. La pubblicità promuoveva queste coupè elevandone l’immagine, i modelli erano sempre raffigurati in contesti eleganti. A livello estetico, gli stilemi ricorrenti delle Personal Luxury Cars erano: il tetto in vinile dei vari allestimenti Brougham e Landau che erano i nomi di tipologie di carrozze, utilizzati fino a inizio ‘900 sulle automobili di lusso, a rimarcare un prestigio ed un presunto lignaggio, del tutto fittizio.
Simil-lusso. Tipico di questi anni, infatti, è il concetto del “Faux Luxury”, ovvero il finto lusso dato dall’ imitazione dei materiali considerati nobili: il vinile trattato diveniva morbido come un guanto, rimpiazzando così la pelle naturale, al pari del velour che era essenzialmente poliestere lavorato per ottenere l’effetto del velluto. Inserti in legno? Anche questi erano in realtà materiali plastici e del tutto sintetici.
Febbre del sabato sera. Le Personal Luxury Cars dovevano fare scena, per questo erano proposte in colori sgargianti: chi le comprava voleva (e doveva) sentirsi speciale arrivando in grande stile. Non è difficile scorgerle nei b-movie degli anni ’70, dove tra neon e brani Funky vengono guidate da uomini d' affari in tuxedo, pusher dai capelli afro e gangster dai cappelli piumati, tutti accomunati dagli immancabili anelli d’oro. Il contesto, raccontato in film della "blaxploitation" come "Shaft il detective" e "Superfly" o ne "Il Papa del Greenwich Village" e "Casinò", è diverso da quello immaginato nelle pubblicità... In tempi più recenti quest’ immagine è stata poi ripresa da una certa corrente della scena musicale rap, sintetizzabile, su tutti, nella figura di Snoop Dogg.
La diaspora. Il “Manierismo” anni ’70 sbiadisce inesorabilmente negli anni ’80, con la crisi del settore manifatturiero gran parte delle Personal Luxury Coupè passa alla trazione anteriore nell’ ottica di un generale declassamento. La clientela originaria, quella degli anni ’60, infatti comincia ad orientarsi sui modelli europei: più sobri, performanti e di qualità migliore. Il segmento inizia a perdere appeal, tuttavia modelli GM come la Buick Riviera del 1986 e la cugina Oldsmobile Toronado dell’89 mantengono viva la scena delle Personal Luxury Car introducendo in anteprima la strumentazione digitale con touchscreen, che sulla Toronado è anche a colori. Chrysler nel 1981 ci riprova con il nome "Imperial", ma nonostante un testimonial d'eccezione come Frank Sinatra e delle finiture di buon livello, l' auto sconta un pianale di "umili origini". Il successo arriva qualche anno dopo con le nuove Chrysler Le Baron, modelli compatti dotati di fari a scomparsa che abbinano bassi costi di gestione a un' immagine sofisticata.
Tu vò fa… l’europea. Sul fronte Ford, la Thunderbird sperimenta la motorizzazione turbo, mentre la prestigiosa Lincoln Mark VII gioca “a fare l’europea” nel tentativo di insidiare l’ambita Mercedes-Benz 300CD Turbodiesel (che è stata tra le primissime coupè con motore a gasolio) ma soprattutto la sorella maggiore "SEC". Il modello di punta della Lincoln è disponibile con un motore diesel di origine Bmw, ma lo spirito della Mark VII è saldamente americano e quindi ritroviamo anche il 5.0 V8, le sospensioni ad aria e un sontuoso allestimento griffato dallo stilista Bill Bass.
Ultimi fuochi. Nessuna delle Personal Luxury Cars anni ‘90 poteva vantare un handling pari a quello delle europee (e giapponesi) ma l’andamento “nautico” ed ipermolleggiato delle edizioni precedenti era un lontano ricordo. Anche le linee tese ad andamento orizzontale lasciano il posto a linee più morbide se non addiritura tondeggianti come nel caso della Buick Riviera del 1994. La Ford Thunderbird e la Mercury Cougar escono di produzione nel 1997. Il canto del cigno, se così si può dire, c’ è poco prima del 2000 con le ultime Lincoln Mark VIII, Cadillac Eldorado e Buick Riviera appunto.
Revival. Il tentativo, da parte di Ford, di rievocare la più famosa tra le Personal Luxury Cars è rappresentato dalla Thunderbird del 2002. Questa coupè dal look “fumettistico” è uno dei modelli partoriti a cavallo del Nuovo Millenio sull’onda rètro, al pari della Plymouth Prowler, Chrysler PT Cruiser, Chevrolet SSR e HHR. Una moda lanciata nel 1991 dalle Nissan Figaro (la più celebre delle "Pike Cars") e portata alla ribalta dalle europee più trendy del Terzo Millennio come Mini by Bmw, Volkswagen New Beetle e la nostrana Fiat 500… operazioni di marketing, talvolta riuscite, più che un vero ritorno alle origini e l' ultima Ford Thunderbird non fa eccezione.
Cosa resterà? Curiosamente a conclusione di questo ciclo troviamo le eredi di modelli che in origine rappresentavano la fascia alta del mercato americano, man mano declassate a partire dagli anni ’70 sino ad “erodere” lo zoccolo duro delle Personal Luxury Cars (o Coupè), nella fascia media. Il segmento delle P.L.C. oggi appare del tutto anacronistico se non addirittura grottesco, che poi, non è forse ciò che potrebbero pensare le prossime generazioni guardando i SUV dei giorni nostri?
Quasi 3.250 auto da collezione suddivise tra sei Case d’Asta: Scottsdale (Arizona) ospita questa settimana le prime vere grandi aste della stagione 2020, iniziate l’11 gennaio con la sorprendente vendita della Ford Mustang GT del 1968guidata da Steve McQueen nel film Bullit.
Se il buongiorno si vede dal mattino i 3,74 milioni di dollari (3,4 milioni di euro circa) sborsati da un collezionista per accaparrarsi una vettura che nella sua quotazione più alta aveva raggiunto 2,2 milioni di dollari (sempre in Arizona lo scorso gennaio: una Shelby Mustang GT500 Super Snake del 1967) lasciano ben sperare anche per gli altri risultati di questa settimana. È vero che l’effetto McQueen moltiplica i valori di qualsiasi oggetto che il rimpianto attore abbia posseduto, ma in un momento di crisi come quello attuale è sempre un ottimo segnale per il mercato.Le 7 sorelle. Quest’anno, nell’area di Scottsdale, in Arizona, le sette case d’asta che terranno i propri incanti (Bonhams, Gooding & Co., RM Sotheby’s, Barrett-Jackson, Leake, Russo & Steele e Worldwide Auctioneers) hanno portato un numero di vetture quasi identico a quello dello scorso anno (3.250 contro le 3.294 del 2019) delle quali 2.000 solo da parte di Barrett-Jackson la cui asta dura nove giorni. I risultati di un anno fa furono incoraggianti (l’81% dei lotti venduto, per un prezzo medio unitario di circa 250.000 dollari e un totale di 251 milioni di dollari di fatturato). Vedremo se saranno replicati, ed eventualmente migliorati. A giudicare dai dati relativi a quelle che vengono definite le Big Three (Bonhams, Goording & Co., RM Sotheby’s) le prospettive sono tutt’altro che rosee: a parità di numero di lotti offerti (393 contro i 399 del 2019) è il prezzo medio di ogni vettura offerta (299.000 dollari contro i 448.600 del 2019 - fonte K500.com) a sollevare le prime perplessità.
In calo. Ciò significa che il prestigio delle vetture in vendita è molto inferiore rispetto a quello dello scorso anno. Anche perché l’età media delle auto proposte è identica: 1968. Lo scorso anno sono state 35 le vetture in vendita a quotazioni oltre il milione di dollari, mentre nel 2020 sono 32. A diminuire, in particolare, è il numero delle Ferrari in vendita (da 59 a 49), soprattutto delle Ferrari milionarie (da 14 a 10). Calano le Bentley e le Bugatti, le Jaguar e le Mercedes; crollano le Porsche (da 66 a 48), le Rolls-Royce, mentre aumentano le vetture Usa: Cadillac, Chevrolet, Dodge, Continental. Tra le altre italiane crescono le Fiat Abarth, le Maserati, mentre spariscono le De Tomaso. Lo scorso anno l’auto con la stima più alta è stata una Ferrari LaFerrari (6.500.000 – 8.500.000 dollari); quest’anno la top lot è una Ferrari 250 GT Cabriolet I Serie Pininfarina del 1958, stimata da RM Sotheby’s 6,0 – 7,0 milioni di dollari, la 25ma delle 40 prima serie cabriolet costruite, rimasta di proprietà della stessa persona negli ultimi 20 anni ma non più con i colori originali.
Italiane di prestigio. Tra le altre vetture da tenere sott’occhio: una rara Alfa Romeo 8C 2300 Cabriolet Décapotable carrozzata Figoni nel 1932 (la quotazione non è stata dichiarata) in vendita da Bonhams; una Ferrari F50 del 1995, in vendita da Gooding & Co. con una stima di 3,2 – 3,6 milioni di dollari; una Ferrari 212 Inter Cabriolet Vignale del 1951, seconda classificata al Concorso di eleganza di Pebble Beach nel 2014 (stimata 2,0 – 2,4 milioni di dollari) in vendita da Bonhams; una Ferrari 500 Superfast del 1965 (solo 36 esemplari realizzati da Pininfarina) in vendita da Gooding & Co. con una stima di 2,5 – 3,0 milioni di euro.
Ci sono anche loro. Da tenere sotto osservazione anche la Lamborghini Miura P400 SV del 1971 proveniente da una collezione privata con soli tre proprietari da nuova in vendita da RM Sotheby’s (1,4 – 1,6 milioni di dollari); una Ferrari 330 GTC del 1967, unico esemplare realizzato su misura per il magnate greco Aristotele Onassis, originale in ogni sua parte e non apparsa in pubblico da quasi 30 anni. Sarà in vendita da Gooding & Co. a una quotazione stimata tra 750.000 e i 900.000 dollari; la Lancia Delta HF Integrale Evoluzione del 1992 che la famiglia Agnelli ha donato ad Alberto Tomba per le medaglie olimpiche vinte nel 1988 e nel 1992 (sarà venduta da RM Sotheby’s senza prezzo di riserva); una Bmw 328 del 1937 appartenuta alla stessa famiglia per 75 anni (350.000 – 450.000 dollari); una Pagani Huayra Roadster del 2018 (2,5 – 2,7 milioni di dollari) e una delle 23 Lamborghini 400 GT Interim carrozzate dalla Touring, per la quale RM Sotheby’s chiede 575.000 – 650.000 dollari.
Questo il calendario di tutte le aste:
Barrett-Jackson 11-19 gennaio
Bonhams 16 gennaio
Gooding & Co. 17-18 gennaio
Leake 15-19 gennaio
RM Sotheby’s 16–17 gennaio
Russo & Steele 15-19 gennaio
Worldwide Auctioneers 15 gennaio
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Nel trailer di “No Time to Die” ritroviamo tutto ciò che ci si aspetta da un film di 007: sparatorie e inseguimenti, paesaggi suggestivi, abiti sartoriali, donne e auto mozzafiato… La spettacolarità delle scene è enfatizzata da una location d’eccezione: Matera.
Il primo trailer di No Time to Die è stato rilasciato da poco, e vede l’ultima interpretazione di Daniel Craig nei panni di James Bond. La nuova minaccia è il terrorista Safin, interpretato da Rami Malek; ritroviamo tra gli antagonisti Christoph Waltz nelle vesti di Blofeld, così come Ralph Fiennes nel ruolo di M e Léa Seydoux (Madeline Swann). Volti nuovi? Lashana Lynch che interpreta Nomi, novella agente “00”, con licenza di uccidere e Ana de Armas, la micidiale Bond Girl.Un colpo al cuore. Auto dicevamo, non poteva mancare la più iconica: l’Aston Martin DB5, in questo caso danneggiata. Del resto è inevitabile quando si viene inseguiti da una moto e da un paio di Jaguar XF che ti sparano contro, e ahimè non sarà l’unica sequenza in cui la DB5 verrà attaccata. Per gli appassionati (e non) è comunque una sofferenza vedere una DB5 malconcia, ma per fortuna i danni saranno più lievi di quelli subiti nelle puntate precedenti di James Bond: Skyfall e Spectre.
Tributo. Oltre alla DB5, nel trailer di No Time to Die si scorgono altri due modelli Aston Martin: la V8 Vantage del 1977, con la stessa targa usata in “The Living Daylights” (1987), con Timothy Dalton alla sua prima apparizione nel ruolo di James Bond... e una DBS Superleggera nuova di zecca, guidata da “Nomi” (Lashana Lynch).
Background. Interessanti anche i veicoli in secondo piano, dalle immancabili Land Rover Defender classiche ai nuovi taxi elettrici londinesi. Brutta fine per la Range Rover Sport SVR che tenta di insidiare una Toyota Land Cruiser Prado, guidata da… James Bond, ovviamente.
Le youngtimers. La scena finale del trailer vede la DB5 presa d’assalto da una Range Rover Classic nera, ma la DB5 di James Bond è (come al solito) a prova di proiettile e adotta dei fari speciali con mitragliatrici integrate. Non c’è scampo quindi per la flotta dei cattivi: Jaguar e Range Rover a cui si aggiungono due youngtimers nostrane, ovvero le ammiraglie "in pensione" Maserati Quattroporte IV e Lancia Thesis, tutte rigorosamente in nero.
Italia da cartolina. Sullo sfondo della pittoresca ambientazione dei Sassi di Matera, agitato da sparatorie e inseguimenti, non potevano mancare due malcapitate Fiat, 126 e 127 oltre al mitico Ape Piaggio. Un'altra Fiat, con la livrea della polizia, o più probabilmente una Lada 2107 (la "124 russa", considerando l’ambientazione cubana), appare insieme ad una Cadillac Series 62 del 1950.
Inedite. Alcune auto non sono state inserite nel trailer, come la nuova Land Rover Defender, protagonista di una lunga sequenza di inseguimenti insieme ad altri modelli Jaguar Land Rover. Anche la prossima hypercar Aston Martin “Valhalla” non viene presentata, ma ne è stata confermata la presenza in un altro inseguimento. Speriamo di non avervi spoilerato troppo... "James Bond No Time to Die" verrà distribuito a partire da aprile 2020, e non è difficile che nel frattempo vengano diffusi altri trailer, nei quali contiamo di vedere ulteriori contenuti automobilistici. Rimanete sintonizzati!
Tutte le auto nel trailer di James Bond "No Time to Die" - 1RuoteclassicheTutte le auto nel trailer di James Bond "No Time to Die" - 2RuoteclassicheTutte le auto nel trailer di James Bond "No Time to Die" - 3RuoteclassicheTutte le auto nel trailer di James Bond "No Time to Die" - 4RuoteclassicheTutte le auto nel trailer di James Bond "No Time to Die" - 5RuoteclassicheTutte le auto nel trailer di James Bond "No Time to Die" - 6RuoteclassicheTutte le auto nel trailer di James Bond "No Time to Die" - 7RuoteclassicheTutte le auto nel trailer di James Bond "No Time to Die" - 8RuoteclassicheTutte le auto nel trailer di James Bond "No Time to Die" - 9RuoteclassicheTutte le auto nel trailer di James Bond "No Time to Die" - 10RuoteclassicheTutte le auto nel trailer di James Bond "No Time to Die" - 11RuoteclassicheTutte le auto nel trailer di James Bond "No Time to Die" - 12Ruoteclassiche
Parlare di motori ibridi al giorno d’oggi è praticamente scontato, avventurandoci tra i meandri dell’automobilismo d’antan scopriamo una tecnologia studiata da Fiat quarant’anni fa con la Fiat 131 Ibrida del 1979.
Nel 1979 viene presentata a Detroit la “Fiat 131 ibrida”, prototipo marciante realizzato dal CRF (Centro Ricerche Fiat). Identica in tutto e per tutto alle altre vetture della linea “Mirafiori”, celava sottopelle tutte le novità. Nel vano motore troviamo infatti il 903cc preso in prestito dalla 127, qui depotenziato a soli 33 cv ed accoppiato ad un motore elettrico da 20 kw. Lo schema proposto da Fiat viene definito “ibrido in parallelo”: il motore a benzina è collegato al differenziale con un rapporto in presa diretta 1:1, senza cambio. Al posto della frizione c’è infatti un convertitore di coppia da 8 pollici a cui segue l’albero di trasmissione su cui è calettato il rotore del motore elettrico, quest’ ultimo alimentato da 12 batterie.Una tecnologia già vista. I motori “benzo-elettrici”, sperimentati a partire dal 1894 da Louis Antoine Krièger possono essere considerati de facto i primi esempi di propulsione ibrida di tipo in serie: un motore termico che alimenta una dinamo collegata a sua volta al motore elettrico che fa girare le ruote. Questo principio consentiva di risparmiare carburante in quanto il motore termico girava, al regime minimo, indipendentemente dalle ruote, mentre l’assenza del cambio (che all’epoca non era sincronizzato e dalla manovrabilità tutt’altro che semplice…) ne semplificava la guidabilità. Il continuo affinamento del motore a scoppio e la maggior autonomia garantita, anche, da una rete di distribuzione di carburante molto più capillare segnò la fine per le auto elettriche e ibride del primissimo ‘900.
I conti non tornano. La Fiat 131 ibrida venne realizzata per confermare alcuni studi nell’ ottica del contenimento dei consumi: la Crisi petrolifera del ’73 aveva radicalmente cambiato l’approccio progettuale per lo sviluppo delle automobili. In questo scenario il calcolatore elettronico del CRF evidenziava che nelle simulazioni questa soluzione dava luogo ad un consumo superiore del 7% rispetto ad un tradizionale motore a benzina. Ciò è da attribuirsi a diversi fattori, in primis al fatto che il motore a benzina è collegato direttamente alle ruote, il che significa che raggiunge la potenza massima solo alla velocità massima, allo stesso modo eroga una potenza irrisoria alle velocità più basse.
Inverso. La coppia erogata dal motore termico della Fiat 131 ibrida non sarebbe sufficiente a far muovere l' auto (come se la vettura venisse avviata in 4° marcia), perciò il convertitore di coppia consente lo slittamento tra motore e albero di trasmissione raddoppiando la coppia motrice all’avviamento, in tal caso il risultato sarebbe analogo a quello di una partenza in 3a, un valore comunque insufficiente. Ecco quindi l’intervento del motore elettrico, che entra in funzione per le partenze e fino alla velocità di 50 km/h. L’unità elettrica agisce in maniera del tutto inversa a quella del motore endotermico a benzina: sviluppa una coppia altissima ad un basso numero di giri, che poi decresce alle velocità più alte, momento in cui entra in funzione il motore a benzina.
Messa a punto. Il motore elettrico inoltre recupera l’energia in fase decelerazione e in misura maggiore nelle frenate, la stessa energia che sulle vetture a motore tradizionale andrebbe dissipata sotto forma di calore. L’ autonomia verificata durante l’utilizzo urbano è di circa 140 km mentre il tempo necessario per la ricarica completa è stimabile in un’intera nottata. Dal punto di vista del rendimento, il convertitore di coppia rappresenta il punto debole dell' impianto: assorbe costantemente il 10% della potenza complessiva del motore a benzina. In tal modo viene annullato il “bonus” energetico proveniente dal recupero di energia in fase di frenata.
Messa alla prova. Anche l’aggravio di 175 kg dovuto alle batterie da 250 Ampère alloggiate nel bagagliaio penalizza la Fiat 131 ibrida soprattutto in fase di accelerazione, dissipando energia che non viene recuperata in alcun modo. L’elaboratore elettronico, tuttavia, evidenziava che ottimizzando il motore termico e con l’adozione di convertitori di coppia senza perdite interne si giungerebbe invece ad un risparmio di carburante del 22% superiore rispetto ad un motore a benzina. Sul fronte prestazionale, durante la prova di Quattroruote (numero di luglio 1979), la Fiat 131 Ibrida raggiunge i 122 km/h di velocità massima e copre i 400m in 23,5; mentre per il chilometro sono necessari 42,1s.
Rilancio. Parlare di motori ibridi al giorno d’oggi è praticamente scontato e leggenda vuole che sia stata Toyota a lanciare questo tipo di motorizzazione con la Prius, nel 1997, aprendo la strada a tutte le altre case automobilistiche. Avventurandoci tra i meandri dell’automobilismo d’antan scopriamo però che la casa giapponese ha in realtà il merito di aver ri-lanciato una tecnologia inventata un secolo prima e studiata da Fiat quarant’anni fa. Viene da sé pensare a come sarebbe andata se Fiat avesse creduto pienamente in questo progetto (e in tanti altri), resta interessante carpire i retroscena e le anteprime tecniche che in tempi non sospetti preannunciavano le soluzioni che ritroviamo sulle automobili contemporanee.
La "Ecto-1" è tra le auto più famose del cinema. Nata nel 1959, la Cadillac Miller-Meteor Futura, è divenuta celebre con la serie “Ghostbusters”.
L’uscita del trailer di Ghostbusters Legacy, vede tornare alla ribalta la mitica Ecto-1 in un revival che si ricollega direttamente ai primi due episodi della saga degli Acchiappafantasmi. L'autore della pellicola è Jason Reitman, figlio di Ivan Reitman che ha firmato i due film, del 1984 e 1989 rispettivamente. Ritroviamo buona parte del cast originale, con Bill Murray, Dan Ayktoyd, Ernie Hudson, Sigourney Weaver e Annie Pots, che affiancano i giovanissimi McEnna Grace e Finn Wolfhard.Ritorno in grande stile. Non poteva mancare all’appello anche lei, la Cadillac Miller-Meteor Futura del ‘59, un'autentica icona del cinema. La riedizione di Ghostbuster del 2016 con un cast tutto al femminile, non ha riscosso grandi successi e tra i motivi c'è anche la sostituzione della gloriosa Ecto-1, con una più recente Cadillac Fleetwood del 1984. L'ex autofunebre anni '80, per appeal e storia poteva ben poco nei confronti dell’antenata, impegnata a liberare le strade infestate di New York: la Ecto-1 ha un posto speciale nei cuori di tutti i ragazzi cresciuti tra gli anni '80 e '90...
C’erano una volta… L’originale "Ectomobile", Ecto-1 appunto, è una Cadillac Miller-Meteor Futura del 1959 trasformata in ambulanza. La Miller e la Meteor erano due aziende concorrenti specializzate nell’ allestimento di pianali General Motors. La Wayne Corporation, società che produceva autobus nell’Indiana, nel 1954 acquistò la Meteor Motor Car la quale costruiva limousine e ambulanze. Nel 1956 la Wayne rileva anche la A.J. Miller Company, produttrice di autofunebri e ambulanze. Nell’ottica di una diversificazione dei veicoli Wayne, nel riordino aziendale, le due società vennero accorpate sotto un unico nome dando vita alla Miller-Meteor (1957).
Il modello. La Cadillac Miller-Meteor Futura è una station wagon mastodontica, accreditata di una lunghezza che supera i sei metri per un peso di ben tre tonnellate. Per muovere cotanta stazza, c’era bisogno di un motore potente, che in questo caso è un americanissimo V8 di 6,3 litri capace di 320 cavalli. Considerate le masse in gioco e la mansione “delicata”, la guida della Cadillac Miller-Meteor doveva rimanere fluida il più possibile, anche in caso di emergenza. Per questo motivo era dotata di sospensioni pneumatiche che attutivano al meglio le asperità e ne miglioravano (nei limiti della fisica…) la tenuta di strada.
Chi l’avrebbe detto. Peculiarità delle ambulanze Miller-Meteor erano le enormi pinne posteriori introdotte dalla Cadillac sui modelli del 1959, le stesse della mitica Eldorado del ’59 e leggenda vuole che siano state le pinne più imponenti di tutta produzione americana. Probabilmente nello stabilimento di Piqua (Ohio) nel 1959, nessuno si aspettava che tra quelle 400 ambulanze realizzate sul pianale delle grosse Cadillac sarebbe nata una stella, la Ecto-1, una delle auto più celebri del cinema…
Di necessità virtù. L’auto che avrebbe "recitato" come Ecto-1, venne scelta in primis perchè con le sue dimensioni poteva contenere agevolmente le attrezzature necessarie per catturare i fantasmi, e poi perchè il suo aspetto un pò scalcinato faceva pendant con i vicoli malfamati di New York negli anni '80... Pochi sanno che la Ecto-1 è nata dall’ idea di Dan Aykroyd e Harold Ramis, che oltre a essere protagonisti del film, hanno contribuito allo sviluppo dell’auto per le riprese. In origine doveva essere nera, con luci stroboscopiche viola e bianche. Ma la livrea nera venne accantonata perchè la maggior parte delle scene era in notturna.
Magnetica. Il disegnatore Stephen Dane ha poi sviluppato la variante definitiva della Ecto-1 (livrea bianca, logo sulle fiancate, sirene sul tetto) e l’attrezzatura dei Ghostbuster. Tutto questo in un tempo record di sole due settimane. Nel 1984 poco dopo l’uscita del film, la Ecto-1 del film venne guidata per le strade di New York al fine di pubblicizzare la pellicola, ed ottenne un successo tale da divenire causa di tamponamenti a catena per lo scalpore destato al suo passaggio...
La Ecto 1-a. Con l’uscita di Ghostbusters 2, la Ecto-1 che iniziava a manifestare dei malfunzionamenti viene sostituita con un’altra Miller-Meteor Futura, denominata Ecto-1a. Dopo 5 anni, troviamo una Ectomobile rinnovata nei sui equipaggiamenti: le ingombranti dotazioni sul tetto vengono sostituite, permettendo al fisico "parapsicologo" Egon (Harold Ramis) di integrare nuovi equipaggiamenti come la ricarica per gli zaini protonici. Anche per gli interni troviamo componenti nuovi che richiedono meno energia, perciò alcune “batterie” vengono rimpiazzate da una nuova "centrifuga ectoplasmatica".
Tutto nuovo. Un'antenna parabolica montata sul tetto consente agli Acchiappafantasmi le comunicazioni con la base operativa e permette l'accesso ai database della "rete sovrannaturale", un primordiale Internet per fantasmi... Nonostante una durata garantita di 5 mila anni, una grande bombola può ricaricare gli zaini protonici in caso di necessità. Il vano di carico, precedentemente realizzato con materiali di recupero, viene completamente riallestito con una postazione computer, radio, barometro e centriguga. Infine anche la carrozzeria riceve una livrea aggiornata: nuovi adesivi con il logo rinnovato, luci al neon e la targa "Ecto 1-a".
Il lieto fine. Il primo esemplare, che nel film appare un pò sgangherato, accusava reali malfunzionamenti, perciò venne abbandonato (come accade spesso, ahimè) in un capannone della Universal Studios alla fine delle riprese. L'intervento di alcuni fan, ha consentito il salvataggio della Cadillac Miller-Meteor Futura, alias Ecto-1. L'auto nel 2008 è stata sottoposta ad un accurato restauro che l'ha riportata ai fasti del 1984. Dopo più di 35 anni la "Ectomobile" torna sugli schermi di tutto il mondo, pronta ad affrontare le sfide di una cittadina della provincia americana infestata dai fantasmi. Buona visione!
Cadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 1RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 2RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 3RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 4RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 5RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 6RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 7RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 8RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 9RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 10RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 11RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 12RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 13RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 14RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 15RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 16RuoteclassicheCadillac Miller-Meteor Futura "Ecto-1": l'auto dei Ghostbuster! - 17Ruoteclassiche
Dal prossimo 30 gennaio al 2 febbraio, il Lingotto Fiere di Torino ospiterà il primo dei grandi eventi dedicati al motorismo storico in Italia: l’edizione 2020 di Automotoretrò. ASI e Yamaha saranno insieme anche per il Motoshow di Varano.
ASI (Automotoclub Storico Italiano) e FIVA (Fédération International des Véhicules Anciens), che hanno sede all’ombra della Mole Antonelliana, confermano Torino capitale del motorismo storico. Doppio appuntamento in casa ASI, dove si celebrano i 90 anni della Pininfarina e della storia agonistica delle Yamaha. Durante l’evento verranno esposti due modelli: la Yamaha-Bimota 350 GP del 1978 e la Yamaha XTZ 750 Super Ténére del 1989.Ruote in pista. In occasione del 19° ASI MotoShow, che si svolgerà dall’8 al 10 maggio 2020 all’Autodromo di Varano de’ Melegari (Parma), ASI e il marchio giapponese, rinnovano la partnership anche per la tradizionale rassegna dedicata alla storia delle moto, kermesse che gode di grande risonanza anche all’estero. La pista di Varano verrà invasa da migliaia di moto d’epoca e Yamaha esporrà le sue moto storiche ufficiali, a cui seguirà la “Parata dei campioni” con i protagonisti del motociclismo che dalla "A di Agostini alla Z di Zito" hanno decretato i successi della casa giapponese.
Motori e campioni. Confermata la presenza di Giacomo Agostini, che nel 1975 conquista il suo 15° (e ultimo) titolo mondiale con la Yamaha YZR500, così come Manuel Poggiali, Pierfrancesco Chili e Roberto Gallina. Si attende la conferma per tutti gli altri grandi nomi, a partire da Max Biaggi e Loris Capirossi. Tra le iniziative previste, possiamo anticipare il “Villaggio Yamaha”, la rassegna sul tema Moto Guzzi da competizione, la “Nuvola Arancione” del Team Laverda con la parata delle 750, il motociclismo pionieristico (ante 1918), la “Sfida dei Cinquantini”, così come la presenza del World Classic Racing Team e dell’associazione Spirit of Speed che presenterà una selezione delle più famose moto da GP dagli ’50 agli anni ’80.
La storia motoristica è piuttosto ricca di triplette, di coreografici arrivi in parata, di schiaffi morali agli avversari. Ne ripercorriamo alcune, tra celeberrime e poco note.
Il più famoso arrivo in parata, perché ci riguarda da vicino, il 6 febbraio 1967 alla 24 Ore di Daytona, quando la Ferrari piazzò in fila tre sue vetture sotto la bandiera a scacchi: nell’ordine di classifica, due 330 P4 (Bandini-Amon e Scarfiotti-Parkes) e una 412 P (Rodriguez-Guichet).
L’onta Ford a Le Mans ’66. Altrettanto nota, ma decisamente più dolorosa per i nostri colori, la tripletta delle Ford GT40 alla 24 Ore di Le Mans del 1966, uno smacco inflitto alle Rosse di Maranello appena celebrato (con enfasi tutta yankee) nel blockbuster cinematografico “La grande sfida”.
Ancora Daytona… Al "gioco della "tripletta" vollero partecipare anche i tedeschi, che sempre sul circuito di Daytona, il 4 febbraio 1968, riuscirono a piazzare in un fazzoletto il “terno secco” 54-52-51 con tre Porsche 907 HL (vincitore addirittura un quintetto: Elford, Neerpasch, Stommelen, Siffert ed Herrmann). L’edizione ’68 della gara endurance non fu però avara neppure col Tricolore, che subì il gap di potenza con le rivali più accreditate, ma riuscì a calare a sua volta un altro tris grazie alle Alfa Romeo T33/2 dell’Autodelta (2000 cm3), quinta, sesta e settima assolute, con una Ford Mustang (5000 cm3) a fare da cuscinetto rispetto al podio Porsche (2200 cm3).
E la Formula 1? Dalla metà degli anni 80 la Formula 1 si limitò a due monoposto per team. Il Campionato, nel 1950, partì comunque subito all’insegna del tris. A Silverstone (GB), tre Alfa Romeo 159 sbaragliarono la concorrenza con una tripletta; nell’ordine, Farina, Fagioli e Parnell. Evviva il 3!
Le Triplette del motorsport - 1RuoteclassicheLe Triplette del motorsport - 2RuoteclassicheLe Triplette del motorsport - 3RuoteclassicheLe Triplette del motorsport - 4Ruoteclassiche
Nella sola Brescia rischiano 2.500 auto “dimenticate”. Il Prefetto: “Sono rottami ad alto rischio ambientale e per questo vanno smaltiti al più presto”.
Parte dalla prefettura di Brescia per diventare un modello da esportare a tutte le province italiane la verifica dei depositi di auto. Caccia aperta agli autoveicoli dismessi che giacciono nei piazzali o nei capannoni, definite “archeo-carcasse” e ritenute potenziali fonti di pericolo di inquinamento ambientale. Progetto pilota. Comincia da Brescia la piccola rivoluzione contro le fonti di inquinamento ambientale dettate da quelle che la Prefettura di Brescia definisce le “archeo- carcasse”, ovvero i cimiteri di autoveicoli dismessi che giacciono nei piazzali o nei capannoni e che possono diventare una pericolosa fonte di inquinamento. “Sono automobili, camion, trattori, mezzi a potenziale rischio di inquinamento ambientale» spiega il Prefetto. «Pensate ai liquidi del motore, agli effetti della pioggia e del tempo su veicoli magari fermi da anni, ancora iscritti nel registro, con un proprietario, che però non provvede al ritiro o alla rottamazione». Da qui l’avvio di una campagna che mira a far smaltire i relitti di automezzi più vecchi che a diverso titolo giacciono nei piazzali, nelle depositerie piuttosto che abusivamente a margine di aree private ed industriali. “Il nostro progetto traccia in materia ambientale una linea guida valida per tutto il territorio nazionale e prevede di liberare le città e le province da questo fardello” spiega il prefetto Attilio Visconti, annunciando un intervento che da ieri è stato reso operativo da una circolare inviata ai sindaci di 45 Comuni sugli oltre duecento del Bresciano che ospitano 61 depositi di automobili destinate alla rottamazione. “In questo modo saranno disponibili i dati sulla reale consistenza del problema”, continua.
I rischi per l'ambiente. Come detto, si tratta di un processo pilota e sperimentale, che porterà all’adozione anche da parte di altre prefetture della soluzione adottata nel Bresciano. “Due gli step previsti” continua il prefetto. “I 61 titolari dei depositi di auto e moto riceveranno un modello per dichiarare con l’autocertificazione, il numero dei mezzi a potenziale rischio ambientale custodite. Abbiamo calcolato che in tutta la provincia di Brescia ce ne sono circa 2.500. Di conseguenza tocca ai sindaci emettere le ordinanze per lo sgombero di materiale che minaccia l’ambiente e la salute pubblica, contattando le ditte che trattano lo smaltimento di rifiuti sulla scorta di un elenco fornito dalla Camera di Commercio”. L’operazione è stata messa in cantiere negli ultimi giorni dell’anno scorso, quindi è ancora in fase di perfezionamento: «Coinvolgerò anche la Procura della Repubblica», specifica Visconti. Oltre ai dati certi di depositi autorizzati l’ipotesi è che molti veicoli possano essere state rottamate e lasciate in sosta in siti abusivi. “Per questo esistono i controlli speditivi che possono fare mergere eventuali stoccaggi irregolari” ha continuato il Prefetto che poi osserva: “Brescia vive nel culto dell’auto dal dopoguerra ad oggi. La gente ha acquistato un numero infinito di vetture ed è del tutto evidente che ne sono state scartate molte ed altrettante sono state accantonate, accumulate magari anche in buona fede, ma creando i presupposti per un rischio ambientale. Ma ci sono anche veicoli vittime di schianti e guasti gravi, abbandonati e rinvenuti casualmente, non reclamati dai proprietari e che, dopo tanti anni, rappresentano una potenziale fonte di rischio. Si pensi all’olio esausto, al liquido dei radiatori che le piogge possono emulsionare e disperdere nelle falde e nei terreni”.
Vigilanza aerea. L’uso dei caccia nella lotta contro il crimine ebbe un precedente proprio a Brescia: tre anni fa vennero sequestrati 2 quintali di marijuana coltivata nella Bassa. In attesa della risposta dall’aeronautica di Ghedi i controlli speditivi della Prefettura continuano e hanno portato a svelare che sono 700 le aziende che trattano o custodiscono materiale qualificato come rifiuto, per le quali è stata messa a punto una sorta di censimento col coinvolgimento dei Comuni, per individuare dove si svolgono attività abusive. Per questo sono intanto già 100 i siti scoperti come irregolari. La fine delle auto barn find.
Le “archeo-carcasse” nei cimiteri degli autoveicoli dismessi - 1RuoteclassicheLe “archeo-carcasse” nei cimiteri degli autoveicoli dismessi - 2RuoteclassicheLe “archeo-carcasse” nei cimiteri degli autoveicoli dismessi - 3RuoteclassicheLe “archeo-carcasse” nei cimiteri degli autoveicoli dismessi - 4Ruoteclassiche
La BMW Serie 3 E36 è la terza generazione del modello di fascia media della Casa dell' Elica biancoblu. Presentata nel 1990, la bestseller del Marchio bavarese, raggiunge piena “maturità” proponendo uno stile moderno e un’immagine più imponente rispetto alla precedente Serie 3 E30.
Con la Serie 3 E36, BMW intendeva affermarsi nel segmento D, divenendone il punto di riferimento. In quest’ottica la media di casa Bmw doveva rispettare elevati standard di finitura e sicurezza, con la possibilità di avere una componentistica riciclabile all'80%. Tutto questo mantenendo le proverbiali doti di handling e piacere di guida che ci si aspetta da una vettura dell'elica biancoblu. Più robusta e slanciata grazie al padiglione leggermente spiovente e a montanti più inclinati e massicci, la BMW E36 vanta un’aerodinamica decisamente migliore del modello precedente: l'ottimo Cx è pari a 0,29. Tutto ciò contribuisce a contenere i consumi e migliora le prestazioni.Benchmark. Sulla Bmw Serie 3 E36 dominano le linee tese: i fari sono rettangolari con i proiettori circolari sdoppiati, celati da una palpebra trasparente; questi integrano anche gli indicatori di direzione. La linea di cintura, ora è sensibilmente più alta, con un andamento crescente che segna tutta la fiancata, interrompendosi solo in prossimità del volume del passaruota anteriore. Sul montante posteriore, l'incofondibile taglio del finestrino "gomito di Hofmeister". Inizialmente suscita perplessità il paraurti in plastica non verniciata, che infatti verrà proposto anche in tinta con la carrozzeria. Lo stile della E36 porta la firma di Claus Luthe, e venne definito poco prima delle sue dimissioni a causa delle tragiche vicende che colpirono la sua vita familiare. Per quanto riguarda il telaio, all'avantreno troviamo un’architettura MacPherson ripresa dalla Serie 3 E30, mentre al retrotreno il nuovo schema Z-link, lo stesso della concept da cui è derivata la Bmw Z1. Questa impostazione, evolutasi nel “Multilink” (un must per tutti i modelli premium), è stata una delle prime applicazioni su una vettura stradale, seguendo le orme della Mercedes-Benz 190 del 1982.
In crescendo. Novità anche in ambito motoristico: sulla BMW Serie 3 E36 spicca il sistema di distribuzione "VANOS". Adottato dapprima in esclusiva sulla M3 E30, con la terza generazione di Serie 3 è disponibile su una gamma di motori più ampia. Nel 1990 la gamma E36 prevedeva le seguenti motorizzazioni: 316i e 318i, 4 cilindri monoalbero da 100 e 113 cv rispettivamente; 320i e 325i 6 cilindri, da 150 e 192 cv. Di serie su tutte il cambio manuale a 5 rapporti, a richiesta il cambio automatico poteva avere 4 o 5 rapporti (sulle 6 cilindri). L’unico motore a gasolio, disponibile dal 1991, era il 325TD da 116 cv, lo stesso della precedente 324TD E30. A queste unità si aggiunsero nel 1993 la 318is (1.8 16v 140 cv) e il 325 TDS, che dotato di intercooler raggiungeva i 143 cv. Nel 1994 debutta invece la 318tds, il suo motore turbodiesel da 1.7l con intercooler erogava solo 90 cv, ma garantiva i consumi più bassi di tutta la gamma. Nel 1995 la 325i viene sostituita dalla 328i, un 2.8 litri con la medesima potenza della 325i, la maggior differenza consiste nel picco di coppia motrice, che disponibile a regimi più bassi rende il 6 cilindri più pronto ed elastico. Il motore della 325i uscente, rivisto nella cilindrata e depotenziato a 170 cv darà vita a una nuova motorizzazione denominata "323i", che va a colmare il gap tra la 320i (150 cv) e la nuova 328i (193 cv).
La famiglia E36. La Bmw Serie E36 era disponibile con diverse carrozzerie: nel 1992 viene presentata la “Coupé”, che propone uno stile molto più grintoso rispetto alle versioni precedenti, riconducibili essenzialmente a una berlina 2 porte. L’anno successivo è la volta della Cabriolet, disponibile con hardtop. Seguono la variante familiare, "Serie 3 Touring" introdotta nel 1994 e la “Serie 3 Compact”, presentata nello stesso anno, che rappresenta il primo passo della casa tedesca nel segmento delle compatte, anticipando di 10 anni la più fortunata Serie 1. Nel corso del 1995, con un leggero restyling di tutti i modelli, vennero ridisegnati i paraurti, ora in tinta con la carrozzeria, e la calandra. Anche i gruppi ottici anteriori ricevettero degli aggiornamenti, con gli indicatori di direzione bianchi. Nuove anche le calotte degli specchietti e i cerchi in lega. Importante l’introduzione dell'airbag per il passeggero. Nel 1996, la 318iS venne equipaggiata con un nuovo 1.9 a benzina, lo stesso montato sulla roadster Z3, sempre della potenza di 140 cv. Anche in questo caso ne giova l’elasticità, con il picco di coppia leggermente più elevato e disponibile ad un regime leggermente più basso. Dulcis in fundo, la versione più sportiva "M3", che presentata nel 1992 è equipaggiata con un 6 cilindri 3.0 litri da 286 cv. Nel 1995 debutta la speciale M3 GT, realizzata in 356 esemplari, per le omologazioni FIA e IMSA, necessarie per iscrivere la E36 al Campionato Touring Car. L'M3 GT è leggermente più potente (295 cv) ed è disponibile nell'elegante livrea verde scuro (British Racing Green). Nel 1996, parallelamente all'aggiornamento delle altre motorizzazioni, la cilindrata della BMW M3 passa a 3.2 litri e la potenza cresce fino a quota 321 cv. L’M3 E36 è disponibile in configurazione Coupè, Cabriolet e per la prima volta anche berlina 4 porte; dal 1997 l'M3 può montare la trasmissione elettroattuata SMG a 6 rapporti.
La prova di Quattroruote. In Italia la 318i è uno dei modelli più apprezzati della gamma BMW Serie 3 E36. Spinta da un 1796cc da 113 cv, la 318i non è penalizzata dall' IVA "pesante" ed è oggetto di una prova sul numero di marzo 1992. Il test evidenzia un motore brillante ed elastico capace di rivaleggiare con le "duemila" della concorrenza, uno sterzo preciso e progressivo al pari del cambio. Nonostante la Serie 3 E46 sia a trazione posteriore, la potenza "contenuta" non innesca sovrasterzi o reazioni brusche, complice la perfetta ripartizione dei pesi, garantisce una tenuta di strada sicura anche nei bruschi rilasci dell' acceleratore. Tra i difetti: la pedaliera leggermente disassata, che compromette un posto di guida altresì ottimo, una certa rumorisità del 4 cilindri; l'assenza di alcune spie di controllo (apertura porte e cinture di sicurezza) e i freni a tamburo qualora non si optasse per l'ABS, montato sull'esemplare in prova.
Stunt. L'ottimo handling l'ha resa uno dei modelli più apprezzati dagli stuntman, che proprio su quest'auto si allenano e si esibiscono in spettacolari numeri acrobatici durante gli eventi automobilistici. Non mancano quindi le apparizioni sul grande e sul piccolo schermo, che hanno consacrato la berlina media di Monaco tra le auto da inseguimento più celebri. Ecco alcuni dei titoli più famosi, che spaziano dalle rocambolesche avventure di Tom Cruise in Mission Impossible (1996) all' irriverente commedia "The Chase" (1994) sino agli inseguimenti "esplosivi" sulle Autobahn tedesche nel telefilm "Squadra Speciale Cobra 11".
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Sono sempre gli spettacolari panorami delle Dolomiti, patrimonio UNESCO, a fare da cornice alla gara: paesaggi innevati, villaggi da favola come quello di Siror (Fiera di Primiero) e città glamour, prima tra tutte Cortina d’Ampezzo, punto di partenza e di arrivo della due-giorni di competizione.
Si chiuderanno il 4 febbraio le iscrizioni all’ottava edizione della WinteRace (Cortina d’Ampezzo 5-6-7 marzo 2020), Super Classica ACI Sport la cui partecipazione è riservata a 70 vetture costruite entro il 1976. Tra le curiosità di questa edizione, tutta su territorio italiano, ci sono il numero di passi da valicare che sono 11, di cui 8 sopra i 2000 metri. 400 i chilometri di percorso suddiviso in due tappe di 200 km l’una, con prove su strade chiuse.30 partecipanti. Rossella Labate, organizzatrice dell’evento, racconta quanto sia importante regalare emozioni ai partecipanti, oltre che mettere alla prova le loro abilità. Tutto questo, di certo, non mancherà alla WinteRace. Il 4 febbraio chiuderanno le iscrizioni anche alla V^ edizione della Porsche WinteRace, gara dedicata ad un massimo di 30 vetture Porsche selezionate dall’organizzazione e costruite dal 1977 fino ai giorni nostri.
Posta in gioco alta. Partiranno, come sempre, in coda alle vetture storiche e avranno una loro classifica e premi dedicati. Il vincitore della WinteRace si porterà a casa uno splendido orologio “Laureato Chronograph” della GIRARD-PERREGAUX, brand svizzero di Alta Orologeria. L’aspetto sportivo prevede invece 66 prove cronometrate e 6 prove di media per un totale di 72 rilevamenti.
Non capita spesso di imbattersi in un motore tanto longevo da essere prodotto per più di 60 anni, questo è solo il primo dei motivi per cui vale la pena raccontare la storia del mitico “6 e ¾”.
Crewe, 1952. Jack Philips e il suo team vengono incaricati di progettare un nuovo motore, più leggero e performante delle vecchie unità, pensate prima della guerra, così mettono a punto il primo V8 Bentley, denominato L380. Si tratta di un motore sperimentale in lega d’alluminio, più leggero di 15 kg rispetto al precedente 6 cilindri in linea, mentre la potenza è incrementata del 50%. Dopo lunghi test, gli ingegneri optano per un aumento della cilindrata che passa da 5204 a 6230 cc. Il propulsore definitivo, indicato come L410 verrà introdotto nel 1959 con la Bentley S2. Con questo V8 la nuova ammiraglia può contare su circa 200 cavalli contro i 135 della precedente S1. Il "6 e 3/4" accompagna la produzione Bentley e Rolls-Royce fino al 1998, quando le due aziende verranno assorbite rispettivamente da Volkswagen e da BMW. In tutti questi anni il motore verrà aggiornato senza mai abbandonare lo schema ad aste e bilancieri originaria.Sorellastre. Dopo l’acquisizione di Bentley da parte della rivale Rolls-Royce LTD, nel 1931 cambiò inevitabilmente l’assetto societario: venne data priorità alle Rolls-Royce trascurando del tutto lo sviluppo delle Bentley e della sua attività sportiva. L’avvento della Seconda Guerra Mondiale, contribuì a rallentare lo sviluppo di nuovi modelli Bentley fino al 1946. Rolls-Royce, intanto aveva trasferito le linee di produzione a Crewe e da allora, Bentley divenne il marchio minore con cui venivano proposti i medesimi modelli della Rolls-Royce. Le Bentley erano caratterizzate da un piglio più sportivo, reminiscenza delle glorie agonistiche degli anni '20, ed erano riconoscibili soltanto per la tipica calandra arrotondata sormontata dal marchio della "Flying B". Questa distinzione era sottolineata dalla dicitura che accompagnava le Rolls-Royce, intese per “gentlemen with a driver” (gentiluomini con autista), mentre per le Bentley si era soliti usare la formula “for gentlemen-drivers” (per piloti gentiluomini). Il fondatore Walter Owen Bentley,"W.O." lasciò l’azienda nel 1935, approdando alla Lagonda, ma continuò a gestire il Bentley Driver’s Club, nominando nel ‘47 l’ex pilota Woolf Barnato come direttore. In onore a questo pilota, protagonista di un’epica sfida al Blue Train (all’epoca il metro di paragone erano i treni), Bentley, oggi propone sui suoi modelli una particolare tinta di verde scuro indicata come Barnato Green. Nel 2019 l’edizione speciale dell’ammiraglia Bentley Mulsanne dedicata a “W.O.”, celebra invece il centenario della fondazione del marchio.
Reinassance. In occasione di un aggiornamento della Bentley Serie T, nel 1971, il V8 passerà alla sua cilindrata definitiva di 6750 cc, che così può contare su una coppia più robusta ai bassi regimi. Caratteristica questa che verrà estremizzata parallelamente ai vari incrementi di potenza. Nel corso della sua produzione, il “6 e ¾” verrà progressivamente adeguato alle normative antinquinamento e ai crash test, verrà quindi dotato di una pompa dell’acqua collassabile e subirà dei cambiamenti nell’impianto di scarico. Per più di 20 anni la sua potenza rimase praticamente invariata; troppo poco per una “gentleman driver car”, perciò nel 1982 venne montata una turbina. Per un altro decennio Bentley continuerà, di fatto, a produrre modelli derivati dalle Rolls Royce, ma la Mulsanne Turbo segna una svolta: il rilancio del marchio della “Flying B” (B alata) dopo decenni in sordina. Con l’adozione della turbina Garrett AirResearch, l’inossidabile V8 arriva a 300cv (contro i precedenti 200): così la Mulsanne Turbo copre lo 0-100 in meno di 7” con una velocità massima di oltre 230 km/h, nessuna Rolls Royce poteva vantare queste performance.
Onorata carriera. Poco tempo dopo, nel 1985 è il turno della Bentley Turbo R, si tratta di una Mulsanne Turbo rivista nel motore e nelle sospensioni, dove R indica appunto “road hold” (tenuta di strada). La rinnovata ammiraglia, venduta fino al 1997, garantisce un netto miglioramento della guidabilità, con potenze crescenti che variano dai 320 ai 400 cv. Nel 2001, Bentley ormai parte del Gruppo Volkswagen, aggiorna il "6 e ¾" dotandolo di due turbocompressori. Montato sulla Arnage Red Label e sulla successiva Arnage R, sostituisce così il 4.4 BMW della prima versione della Arnage, denominata Green Label. La Arnage R può contare su una potenza pari a 405 cavalli ed eroga una coppia titanica: 835 Nm. Cifre che crescono sulle "Arnage T" e Continental T, accreditate di 457 cv e 875 Nm di coppia motrice per 270 km/h. Non è un caso che "tale" Ettore Bugatti avesse definito le Bentley "I camion più veloci al mondo"... Il 6 e ¾ , oggi continua a motorizzare la Mulsanne, ammiraglia della "B alata" presentata nel 2011. Una scelta in controtendenza rispetto alle moderne Continental e Bentayga (dotate di motori di origine Vw-Audi come il W12 e il compatto 4.0 V8 biturbo), dettata probabilmente dallo zoccolo duro di quei "Bentley Boys", decisi a preservare un tratto distintivo dell'identità Bentley. Nella sua ultima edizione il 6,75 litri è capace di 530 cavalli per 1100 Nm di coppia, quanto basta per portare a spasso 2685 kg con la più totale disinvoltura. Il tutto accelerando in meno di 5” e toccando i 300 km/h. Giunto alla “veneranda età” di 61 anni e con 23 modelli Bentley all’attivo, con la fine della produzione della Mulsanne, calerà il sipario anche per il longevo V8. Gli ultimi esemplari saranno assemblati in primavera in un’edizione celebrativa: la Mulsanne 6.75 Edition, limitata a trenta esemplari. Si conclude così un affascinante e glorioso capitolo dell'automobile.
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La Citroen Xm nel 1989 proiettava l’automobilismo nel futuro con le sospensioni "Idrattiva" e la sua linea avveniristica by Bertone. Nel 1990 la futuristica ammiraglia francese venne insignita del titolo di "Auto dell'Anno".
La Citroen XM viene presentata al Salone di Ginevra del 1989. La nuova ammiraglia del "double chevron" ha il compito di proiettare in avanti i contenuti della precedente Cx. Un modello quest’ultimo di grande successo, prodotto per ben 17 anni, dal 1974 al 1991 e che, come vuole la tradizione Citroen, è sempre stato sinonimo di avanguardia stilistica e tecnologica. In tal senso la XM manteneva tutte le peculiarità delle grandi ammiraglie francesi: comodità a piene mani unitamente a qualità stradali eccellenti, ancor oggi tra le migliori di sempre. Avant-garde. Con un coefficiente di penetrazione aerodinamica da record, pari a 0,28 (indicato come Cx, e spunto per il nome della precedente ammiraglia Citroen), la Xm non può che avere una linea avveniristica. Definita da molti “l’astronave”, la Citroen Xm è il risultato di una “gara” tra diversi esponenti del design automobilistico: lo Studio Innovazioni Citroen di Carrières-sous-Poissy, il Centro Stile Bertone e Marcello Gandini. La Xm doveva essere assolutamente distintiva e innovativa. E così fu. Le linee guida della “V80”, poi divenuta Citroen XM, vennero tracciate già nell’ ottobre 1984 con lo sketch di Mark Deschamps (Centro Stile Bertone), disegnato su un tovagliolo, a 10.000 piedi di altitudine durante un volo aereo verso Parigi.
Distintiva. La Citroen Xm incarna pienamente il linguaggio formale dello Stile Bertone, caratterizzato dal tipico “modernismo”, espresso dalla linea vagamente cuneiforme e reminiscenza dell’epoca d’oro del design automobilistico. Uno stile in controtendenza rispetto al trend del periodo che in vista degli anni ’90, si orientava su linee molto organiche e morbide. Questa scelta, a 30 anni dal lancio ha reso senza tempo la Citroen Xm, percepita come avveniristica anche ai nostri giorni. La fiancata è segnata da modanature orizzontali che attraversano i due passaruota, mentre una seconda linea di corda cinge la vettura dalla fanaleria anteriore proseguendo verso le maniglie e giunge fino al portellone. Il family feeling con gli altri modelli Citroen è riscontrabile nelle linee tese, introdotte con la BX, mentre i gruppi ottici e la vetratura delle porte anteriori ricordano la prestigiosa coupè SM. Sul retro troviamo la caratteristica fanaleria semitriangolare con calotte brunite ed il lunotto diviso in due parti, una soluzione che all’ epoca venne criticata non poco.
Comoda sempre e comunque. Per gli interni della Citroen XM, lo stile viene assegnato a Bob Matthews, che ebbe l'idea di rialzare leggermente il divano posteriore in modo da garantire una miglior visuale anche ai passeggeri posteriori. Con questa soluzione, venne migliorata l'abitabilità interna, L’ ampia vetratura avvolge completamente il padiglione, garantendo un’immagine moderna e assicurando la luminosità dell’abitacolo. La XM possedeva ben 13 vetri, uno dei quali interno al portellone posteriore, che aveva la funzione di proteggere i passeggeri dal freddo durante l'apertura del bagagliaio: una finezza più unica che rara. Stranamente, considerata l’immagine futuristica della Citroen Cx, non è prevista la strumentazione digitale o il sintetizzatore vocale, già proposti sulle rivali Renault. Probabilmente, considerato l’elevato costo del progetto si optò per una soluzione più semplice (ed affidabile). Il volante, rigorosamente “monorazza”, in questo caso richiama fedelmente gli altri modelli della Casa.
Le Idrattiva. La Xm porta al debutto un’anteprima tecnica assoluta: le sospensioni “Idrattiva”. Si tratta dell’evoluzione delle leggendarie sospensioni del vecchio sistema di sospensioni idropneumatiche che sperimentate sulla Traction Avant hanno consacrato la dinastia delle ammiraglie Citroen a partire dalla DS. Il nuovo arrangiamento sospensivo partendo dallo schema della Bx (1982) prevede uno schema tipo McPherson sull’ asse anteriore e bracci trainanti al posteriore, la novità è la presenza di blocchi pneumatici che agiscono su ogni singola ruota, gestiti da una centralina. Il controllo elettronico era offerto di serie solo sulle versioni di punta mentre le versioni di base utilizzavano le sospensioni idropneumatiche "tradizionali", simili a quelle della BX appunto. Le sospensioni Idrattiva erano comunque disponibili a richiesta, così come l’ABS che in origine era optional, inserito nell’ allestimento “Pack”. Queste assicurano un comfort eccellente mediante un calcolatore elettronico dotato di sensori posizionati su tutti i comandi che definiscono la dinamica dell'auto: acceleratore, trasmissione, freni, sospensioni e sterzo. Questi, interagendo con la centralina variano l'elasticità del sistema. Questo consente di ritarare l’assorbimento delle asperità su ogni singola ruota, 20 volte al secondo, garantendo un corretto assetto di guida. La XM diventa così il punto di riferimento nello sviluppo delle sospensioni. Un esempio? All’apertura di una delle portiere, l’auto si irrigidisce per evitare di salire e affondare sotto il peso di una persona che sale sull’auto, (o viceversa di risalire quando un passeggero scende dall'auto) tornando "morbida" qualche secondo dopo la chiusura della portiera...
Rodaggio. Come accade spesso con l’immissione di nuove e complesse tecnologie, anche per la prima serie si sono verificati problemi che ne hanno compromesso affidabilità. In realtà i guasti della sospensione Idrattiva “H1” erano spesso causati dalla scarsa qualità dei connettori dei cablaggi, che obbligavano la centralina a disattivare la gestione elettronica delle sospensioni. Ne derivava un irrigidimento tale da compromettere il comfort della vettura sino a livelli inaccettabili, e ciò fino al reset del sistema che avveniva solo spegnendo e chiudendo la vettura per alcuni minuti. Altra fonte di problemi era rappresentata dai tamponi delle sospensioni anteriori, soggetti a rotture improvvise con tanto di fuoriuscita degli steli dal cofano motore. Nelle Xm “phase II” il problema delle sospensioni viene risolto adottando un'evoluzione del sistema Idrattiva H1, chiamato Idrattiva H2 o Idrattiva II.
I motori. Sul fronte motoristico troviamo inizialmente tre motorizzazioni: 2.0 a carburatore da 114 cv, 2.0 iniezione da 128 cv e un 3.0 V6 “PRV” da 167 cv. Il cambio è manuale a 5 rapporti, optional l'automatico a 4 rapporti. La gamma si arricchì poco dopo con l'arrivo della nuova versione di punta, la XM 3.0i V6 24v, dotata di un V6 PRV con distribuzione bialbero da 200 cv. Con questa motorizzazione la Xm 3.0 V6 24 toccava i 235 km/h. Le versioni a gasolio, erano due: Xm 2.1D e 2.1 TD, entrambe con un’inconsueta distribuzione a 3 valvole per cilindro. Il primo modello diesel, era l'aspirato da 2138 cm³ da soli 83 cv, la turbodiesel raggiungeva quota 110 cv e offriva delle prestazioni più consone al tipo di auto. Nel 1991, al Salone di Francoforte, viene presentata anche la XM Break, station wagon, che sfiorando i 5 metri di lunghezza divenne la più grande tra le familiari in produzione. Nel 1992 c’è un importante aggiornamento della gamma: la XM 2.0 Turbo CT equipaggiata con un 2.0 sovralimentato con turbocompressore a bassa pressione da 141 cv, sostituisce le precedenti motorizzazioni 2 litri. Le versioni a gasolio per tutta la loro commercializzazione furono le uniche a non montare il catalizzatore, ma nel corso di quell'anno vennero dotate di valvola EGR per il ricircolo dei gas esausti. Il volante monorazza, stilema ricorrente sulle Citroën da decenni, venne sostituito da un nuovo birazza orizzontale. La Citroen Xm ora veniva proposta in cinque allestimenti: Detente, Sensation, Ambiance, Ambiance Vip, Exclusive. Nonostante le novità, le vendite continuavano a calare inesorabilmente.
Secondo atto. Con il restyling del 1994, detto “Phase II” vengono apportate diverse migliorie: la linea viene smussata, la scritta XM in coda non era più in stampatello ma in corsivo con monogramma "Xm" e all’ interno, la plancia viene ridisegnata insieme ad un nuovo volante a 4 razze che integra l’airbag per il guidatore. Nuove anche le motorizzazioni, la XM 2.0 16v, spinta da un 2 litri bialbero da 132 cv e la Xm 2.5 TD , 2.446 cm³ e 129 cv, si affianca alla 2.1 TD. Scompare la Xm con motore 2.1 aspirato, mentre la 2.0 Turbo CT subisce un incremento di potenza, passando da 141 a 147 cv. I livelli di allestimento si riducono a due: VSX ed Exclusive. La nuova versione di punta, la XM 3.0 V6 24v, viene equipaggiata con un nuovo motore PRV da 2963 cm³. Il nuovo motore rimpiazza entrambi i precedenti V6, il ZPJ della 3.0 monoalbero da 167 cv e il ZPJ4 della 3.0 24 valvole, mantenendo la stessa potenza di quest' ultimo, 200 cv. Nel 1997 il modello top di gamma riceve un ulteriore aggiornamento, indicato come “ES 9J4”. Il nuovo V6, esclusivo per il gruppo PSA ha una cilindrata di 2946 cm³ ed è leggermente meno potente del predecessore, 190 cv anziché 200, ma può contare su una coppia più robusta a garanzia della massima fluidità di marcia.
Azzardata. Per il progetto della Citroen Xm, denominato inizialmente “Y30”, la Casa del double chevron stanziò ben 7,5 miliardi di Franchi, necessari per l'adeguamento degli impianti e la formazione del personale. Durante i primi due anni di produzione la XM ottenne buoni risultati in termini di vendite, a fronte di un prezzo più alto della sua progenitrice. Tra il 1989 e il ’91 vennero veduti 130.000 esemplari, ma presto il trend si invertì bruscamente, a causa dei gravi difetti di gioventù illustrati in precedenza. Nonostante la Xm fosse finalmente riuscita a risolvere le pecche meccaniche, le vendite calarono di anno in anno con costanza, complice anche la stampa che precedentemente aveva contribuito a gettare ombre sul modello. La mesta uscita di produzione venne decretata nel novembre del 2000, dopo aver totalizzato poco più di 330000 esemplari nel giro di ben undici anni. L’erede della Citroen Xm arriverà soltanto nel 2005 con la C6 e anche questa, purtroppo non avrà il successo sperato. Sebbene le vendite totali non siano state entusiasmanti, oggi la Citroen XM inizia ad essere riscoperta dagli appassionati, anche per merito dei club che valorizzano il Marchio e questo modello, la XM che a distanza di 30 anni riesce ancora ad ammaliare con la sua linea da navicella spaziale e la vocazione da grande stradista. Un' auto che, citando la campagna pubblicitaria dell'epoca, era capace di "domare la strada".
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